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Il Sentiero Andrea Paniga
La sezione occidentale della G.V.O. ( Gran Via delle Orobie )
1: Da Delebio al rifugio Legnone
Il Sentiero Andrea Panìga (denominato così dal 1998, in onore
di un giovane appassionato di montagna, prematuramente scomparso) costituisce
una delle due grandi sezioni della Gran Via delle Orobie, e precisamente
quella occidentale, che parte da Delebio, alle porte della Valtellina,
per giungere a Fusine, centro orobico della media Valtellina. A voler
essere pignoli, il sentiero non scende a Fusine, ma, attraversata l’alta
Val Madre, si dirige, prendendo il nome di Sentiero Bruno Credaro, verso
la Val Cervia, proseguendo fino alla conclusione, all’Aprica.
Tuttavia, chi volesse percorrere solo il sentiero Paniga, di cui viene
qui offerta una relazione, non può che concluderlo nel paese
che si colloca allo sbocco della Val Madre. Il sentiero può essere
percorso in tre-quattro di giorni, ma nulla vieta che si riservi un
numero maggiore di giornate a questo incontro ravvicinato con gli scenari
del Parco delle Orobie Valtellinesi, noti e meno noti. Lungo il cammino,
attraversiamo cinque grandi valli: la misteriosa Val Lésina,
le più aperte e solari valli del Bitto di Gerola e di Albaredo,
l’antica Val di Tàrtano, la raccolta Val Madre.
Entriamo, dunque, in Valtellina: a nord ci accoglie la luminosa Costiera
dei Cech, che esibisce interamente le sue bellezze. A sud, invece, boscose
e serrate muraglie nascondono la prima valle orobica, di cui emergono
solo le cime più alte. Si
tratta della Val Lésina, che ben pochi conoscono, anche perché,
unica, in questo, insieme alla piccola val Fabiòlo, nella compagine
orobica, non può essere avvicinata da autoveicoli: per salire
ad esplorarla, dobbiamo lasciare l’automobile al piano. Raggiungiamo,
quindi, Delébio e portiamoci nella parte alta del paese, in contrada
Basalùn, facilmente individuabile per la presenza di una centrale
elettrica. Proprio nei pressi del suo ingresso troviamo un parcheggio,
dove possiamo lasciare l’automobile, a circa 250 metri. C’è,
infatti, una pista gippabile, ma è riservata allo strascico del
legname, e comunque presenta pendenze così accentuate che solo
un fuoristrada può affrontarle adeguatamente. La pista è
ripida, ma ha un fondo molto bello: solo in alcuni tratti, infatti,
è in cemento, per il resto si tratta di un bel grisc, le cui
pietre sono levigate dal continuo passaggio di legname, che ancora oggi
viene portato a valle. La bellezza della strada compensa, almeno parzialmente,
il tributo di sudore che ci richiede: non c’è tempo, infatti,
di scaldare i muscoli, perché fin dai primi metri i passi devono
conquistare metro dopo metro con grande fatica. Ci accompagnano anche
i segnavia bianco-rossi della Gran Via delle Orobie e, poco dopo la
partenza, troviamo per la prima volta, sul muro, la sua sigla in evidenza:
G.V.O. Superato il tempietto dedicato ai caduti di Delebio nelle due
guerre mondiali, prendiamo per qualche secondo il fiato al Piazzo Minghino
(532 metri), dove si trova il piccolo invaso che serve la sottostante
centrale.
Avanti, ancora, fino ad un bivio, dove i cartelli ci fanno lasciare
la pista principale per salire direttamente, su una pista secondaria,
ai bei prati di Osiccio di Sotto, che si prolungano fino ad Osiccio
di Sopra (m. 922). Si tratta di uno splendido maggengo, che ha diversi
motivi di interesse. La
panoramicità, innanzitutto: dominiamo, dal suo limite inferiore
(dove troviamo anche una fontana, casomai avessimo dimenticato la scorta
d’acqua), la bassa Valtellina. Ci si presentano le ultime pigre
anse dell’Adda, l’alto lago di Como, il lago di Novate Mezzola,
l’intera Costiera dei Cech, ampi squarci sulle alpi Lepontine.
Se, poi, prestiamo attenzione, noteremo che su molte case sono dipinte
scene bibliche, vetero e neotestamentarie. Si tratta di vere opere d’arte,
dipinte, fra il 1995 ed il 1996, dal pittore e scultore G. Abram. Tutto
ciò rende Osiccio quasi unico nel panorama dei maggenghi valtellinesi.
Dall’estremità superiore dei prati parte un sentiero molto
ripido, che corre sul filo del dosso e guadagna abbastanza rapidamente
i prati di Piazza Calda (m. 1165), costellati da diverse baite ben curate.
Alle soglie dei 1200 metri, seguendo le indicazioni per l’alpe
Legnone ed i segnavia bianco-rossi, lasciamo anche questi prati e ci
addentriamo nel bosco, seguendo un sentiero ben tracciato che compie
un lungo traverso in direzione sud-ovest (destra), giungendo a sormontare
un vallone scosceso, guadagnando, a circa 1300 metri, una piccola radura,
dove volge a sinistra, puntando a sud, fino ad un’incantevole
conca immersa nella penombra di grandi abeti, detta “Zoca de la
Naaf”, Conca della Nave, al culmine del dosso denominato Mottalla
dei Larici, a 1395 metri. È difficile capire cosa abbia a che
fare questo luogo magico con le navi, ed è interessante osservare
che esiste, sulla Costiera dei Cech, un dosso che ha una denominazione
analoga, quella di “Piazzo della Nave”. Ma
proseguiamo, salendo, verso sud-ovest, di un altro centinaio di metri,
prima di uscire dal bosco, alle soglie dei 1500 metri, per attaccare
il limite inferiore dei prati della grande alpe Legnone, che si stende,
per oltre duecento metri, ai piedi della dirupata parete nord dell’omonimo
monte. Sempre seguendo il sentiero, passiamo a sinistra della croce
collocata nel 1993 sul limite di un dosso dell’alpe.
Non manca molto al cuore dell’alpe, rappresentato da tre baite,
fra le quali si trova il rifugio dell’Azienda Regionale delle
Foreste di Morbegno, denominato rifugio
A.R.F. Legnone (m. 1690). Ora sediamoci nei pressi del rifugio e
guardiamo in direzione nord. L’occhio attento riconoscerà,
in direzione della Val Chiavenna (a sinistra), il profilo tondeggiante
del monte Matra (m. 2206), il pizzo di Prata (m. 2727, posto a guardia
della bassa Val Codera), l’inconfondibile lancia del Sasso Manduino
(m. 2888), che chiude ad ovest la testata della Val dei Ratti, le rimanenti
cime che ne segnano il profilo, cioè la punta Magnaghi (m. 2871)
ed il pizzo Ligoncio (m. 3032); con un cambio di scena, ecco, in primo
piano, le cime della Costiera dei Cech, il monte Sciesa (m. 2487), la
cima di Malvedello (m. 2640) e, defilata, la cime del Desenigo (m. 2845);
ancora più a destra, il possente monte Disgrazia (m. 3678), affiancato
dai Corni Bruciati (m. 3097 e 3114); sullo sfondo, infine, le cime della
lontana Val di Togno e del versante retico, cioè il pizzo Scalino
(m. 3323), la punta Painale (m. 3248) e la vetta di Rhon (m. 3139).
Volgiamoci, ora, a sud: a sinistra della scura parete nord-orientale
del Legnone ci si presenta la sequenza delle cime della testata della
val Lésina, fra le quali emergono la cima di Moncale (m. 2306),
la cima del Cortese (m. 2512) ed il pizzo Rotondo (m. 2495). Guardando
con attenzione, potremo individuare il sentiero militare, tracciato
durante la prima guerra mondiale nel contesto di un sistema di fortificazioni
orobiche allestite per far fronte ad un eventuale cedimento della linea
del fronte allo Stelvio, sentiero che sale, zigzagando, verso una bocchetta
e che viene oggi utilizzato per salire sull’ultimo gigante delle
Orobie occidentali: una volta raggiunta la bocchetta, infatti, si guadagna
la cima seguendo la linea del crinale. Sono trascorse dalle quattro
alle cinque ore dalla partenza, e gli oltre 1400 metri di dislivello
superato si fanno certamente sentire, per cui conviene eleggere il rifugio
a punto di appoggio per il primo pernottamento. Teniamo però
presente che lo troveremo custodito solo nel periodo estivo; se, invece,
fosse chiuso, dovremo cercare ricovero un po’ più avanti,
in una baita aperta ed attrezzata con stufa e cuccetta (vedi relazione
successiva). Una delle possibilità offerte dal sentiero, infatti,
è quella di sperimentare, equipaggiati di un buon sacco a pelo,
le emozioni di un pernottamento in condizioni che ben si adattano alla
wilderness dei luoghi. Supereremo la prima notte? In caso affermativo,
apriamo la seconda presentazione per conoscere
cosa ci riserva la prosecuzione del cammino.
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Difficoltà |
E (escursionistica) |
Dislivello |
mt. 1430 |
Tempo |
4-5 ore |
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2: Dal rifugio Legnone al rifugio Bar Bianco
La
seconda giornata del sentiero prevede la traversata dell’intera
Val Lésina e l’ingresso, dopo un breve passaggio sul versante
orobico che dà direttamente sulla bassa Valtellina, in Val Geròla.
Si tratta di una tappa caratterizzata, almeno nella prima parte, da
silenzi, da un senso di solitudine profonda ed insieme di ritorno alle
origini. Una montagna nascosta, non aspra, ma severa, lontana dagli
scenari familiari a chi ha negli occhi frotte di turisti ed attrattive
che rendano gradevole il soggiorno montano. Qui tutto parla ancora della
durezza che, da sempre, anche se in misura diversa, segna il vivere
in montagna.
Muoviamo, dunque, i primi passi, al cospetto della dirupata parete nord
del monte Legnone, il cui corno massiccio segna il limite occidentale
della catena orobica. Lasciata l’alpe Legnone, attraversiamo,
rimanendo in quota, l’alta val Galida, ignoriamo la deviazione
che sale, con un percorso ardito, verso la bocchetta del Legnone (si
tratta della prosecuzione della mulattiera militare risalente alla Prima
Guerra Mondiale, che abbiamo seguito dall’alpe Piazza Calda),
ed affrontiamo, salendo leggermente, le propaggini di un lungo dosso
(il Dosson di Zocche), per poi scendere, con stretti tornanti, all’alpe
Cappello, rimanendo più alti rispetto alle baite dell’alpe
e passando nei pressi del ben visibile Baitone (m. 1640), al quale giunge
anche un sentiero che sale dall’alpe. Si
tratta di una zona soggetta a slavine, come testimonia un paravalange
costruito per riparare l’edificio. Una seconda salita si rende
necessaria per tagliare il dosso che scende dal Pizzo Val Torta (m.
1898), a sua volta propaggine dello sperone roccioso che scende verso
nord-est dalla cima di Moncale (m. 2306). Ci riportiamo, quindi, ad
una quota che si aggira intorno ai 1730 metri, per poi tornare a scendere,
fino ai 1557 metri della casera di Luserna, posta al centro dell’anfiteatro
di origine glaciale che si distende ai piedi della cima del Cortese
(m. 2512). Ci attende ora una traversata verso il crinale di un terzo
dosso, ai piedi del Dosso (m. 1909), propaggine dello sperone che scende,
verso nord-ovest, dal Pizzo Stavello di Luserna (m. 2259). Sul crinale
troviamo un primo possibile punto di appoggio attrezzato per il pernottamento,
la casera del Dosso (m. 1513). Il sentiero passa sopra le baite e prende
a salire verso sud per una trentina di metri, prima di iniziare un nuovo
traverso in direzione est e, superato un dosso, sud-est. Mantenendosi
intorno alla quota 1540, raggiunge, dopo aver oltrepassato un vallone
e piegato verso nord-est, la casera di Stavello (m. 1551), anch’essa
possibile punto di appoggio per il pernottamento.
Manca
all’appello un’ultima baita, nella compagine delle diverse
casere che testimoniano una ricca tradizione casearia ancora oggi parzialmente
viva nella valle: si tratta della casera di Mezzana (m. 1430), alla
quale scendiamo tagliando un dosso ed attraversando il fianco boscoso
che costituisce il versante settentrionale delle propaggini di nord-est
del pizzo Stavello. Completiamo così la traversata degli alpeggi
della valle, calando nel cuore del più orientale fra i suoi rami
superiori (che conserva il nome dell’intera valle). Alla casera,
nel periodo estivo, troveremo i pastori che caricano l’alpe, raggiungendola
con l’aiuto di qualche motocicletta. Scendiamo, quindi, al ponticello
che attraversa il torrente e, seguendo le indicazioni, imbocchiamo un
sentierino che taglia, verso nord-nord-est (sinistra), il lungo e selvaggio
fianco montuoso occidentale che scende dai pizzi Olano (m. 2267) e dei
Galli (m. 2217). La traccia non è sempre evidente, ma, con un
po’ di attenzione, non la possiamo perdere. Nella traversata valichiamo
il solco della val Tremina e della val Pescia, e possiamo avvalerci,
in un punto che richiede maggiore attenzione, dell’ausilio di
corde fisse. La traversata di questi luoghi veramente selvaggi ci porta
al limite inferiore del Dosso Paglieron (Paierùn, in dialetto,
dalla caratteristica erba di colore paglierino che si trova assai frequentemente
alle quote alte). Qui
troviamo, a quota 1633, una baita, avamposto dell’alpe Piazza,
che raggiungiamo guadagnando, con qualche tornante, il bellissimo crinale
che scende verso nord-ovest dal pizzo dei Galli.
Eccoci, dunque, a quota 1844: da questo poggio panoramico possiamo gettare
uno sguardo alla valle che ci accingiamo a lasciare, per poi ammirare
l’imponente scenario retico che si para di fronte ai nostri occhi,
e che, nel prosieguo del cammino, avremo modo di contemplare da molti
altri suggestivi osservatori. L’impressione è quella di
chi, improvvisamente, esce all’aperto e guadagna, dopo un lungo
cammino nel cuore di una montagna suggestiva, ma raccolta e chiusa,
un respiro più ampio. Dobbiamo, ora, scendere, verso nord-est
(destra), all’alpe Tagliata, sul versante Valtellinese sopra Cosio
Valtellino. Presso la casera dell’alpe (m. 1523), lasciamo la
strada, che prosegue nella discesa verso i Bagni dell’Orso (per
poi ricongiungersi con la strada che da Morbegno sale in Val Gerola),
e, prendendo a destra, in direzione sud est, iniziamo, in graduale salita,
una nuova traversata, all’ombra di un fresco bosco di abeti, raggiungendo
il solco della Valle di Cosio, dove troviamo anche, a quota 1703, le
baite di una piccola alpe. La traversata prosegue sul lato opposto della
valle, guadagnando quota 1750, per poi tornare a scendere ai 1700 metri
circa dell’alpe Olano. Piegando a destra, passiamo poco sopra
i 1702 metri del monte Olano, segnalato da una ben visibile croce e
caratterizzato da un delizioso microlaghetto, e saliamo in direzione
della casera di Olano (m. 1792, nella conca ai piedi del pizzo di Olano),
fino ad incontrare la deviazione, sulla sinistra, che permette di superare,
intorno a quota 1750, la valle denominata Il Fiume, raggiungendo, dopo
una traversata sul versante opposto, la Baita del Prato (m. 1715). Siamo
ormai decisamente entrati in Val Gerola, e siamo sul largo dosso che
scende, verso nord-est, dalla ben visibile Cima della Rosetta (m. 2142).
Il sentiero prosegue, ora, verso il solco della Val Mala, in direzione
dell’alpe Ciof, cioè verso sud, iniziando la lunga traversata
degli alpeggi del versante occidentale della Val Gerola, fino al rifugio
di Trona Soliva. Possiamo però riservare questo ulteriore segmento
del nostro cammino alla terza giornata e scendere a pernottare al rifugio
Bar Bianco (m. 1506).
La facile discesa avviene seguendo il crinale del dosso, in direzione
nord-est. Ci attendono ora orizzonti più gentili. Ma quello che
ci attende, nell’immediato, è un sonno ristoratore, quel
che ci vuole dopo circa 6 ore di cammino ed un dislivello in salita
di circa 700 metri. Per sapere cosa ci riserva a prosecuzione del sentiero,
apri la presentazione della terza giornata.
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Difficoltà |
E (escursionistica) |
Dislivello |
mt. 700 circa |
Tempo |
6 ore |
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3: Dal rifugio Bar Bianco al rifugio Trona Soliva
Dov’eravamo
rimasti? Ah, sì, alla Val Mala. La denominazione significa “valle
cattiva”, e si trova anche in altri luoghi della Valtellina, quando
si ha a che fare con valli scoscese e dirupate. Non sembra un inizio
di buon auspicio per questa terza giornata. In realtà questa
valle si chiama così per l’aspetto che la caratterizza
a quote molto più basse, come è possibile osservare percorrendo
la strada statale che da Morbegno sale a Gerola Alta. L’aspetto
che la valle assume appena prima della galleria che incontriamo poco
dopo Rasura è, infatti, veramente selvaggio ed impressionante.
Ma torniamo alle nostre quote. Abbiamo appena lasciato il Bar Bianco
e dobbiamo subito salire, per riguadagnare la baita del Prato, cominciando,
poi, una traversata che ci porta sul versante opposto della Val Mala
(qui tutt’altro che impressionante), fino all’alpe Ciof,
o Giuf (m. 1732). Nella traversata incontriamo, in una gentile cornice
di radi larici, anche un masso sul quale è fissata una targa
che ci ricorda che quello che stiamo percorrendo è il sentiero
Andrea Paniga. Ma questo noi lo sappiamo
già. Inoltre, passiamo poco al di sotto dell’alpe Culino,
caratterizzata dalla presenza di un bel laghetto (m. 1959): non è
una cattiva idea salire a visitarlo e, se siamo in forma, proseguire,
verso nord-est, imboccando l’evidente sentiero che sale alla croce
della panoramica Cima della Rosetta (m. 2142). Questo fuori-programma
ci porterà via non più di un’ora e mezza-due. Ma
torniamo alla traversata, che si è conclusa alla casera dell’alpe
Ciof, posta al limite inferiore di un lungo e bellissimo prato adagiato
sul crinale che scende, verso est, dal monte Rosetta (m. 2360). Ad accoglierci
troveremo, d’estate, lo scampanio delle mucche al pascolo (ma
anche l’abbaiare di qualche cane che, come spesso accade, non
si mostra troppo amico degli escursionisti). Il sentiero non taglia
il pascolo, ma prosegue appena sopra il limite superiore del bosco (leggermente
più in basso rispetto alla casera), in direzione sud-est. Dopo
il primo tratto, entra in un bosco di larici e comincia a guadagnare
quota, per circa duecento metri. Ignorata una deviazione a sinistra,
e superato il solco della val Combana, raggiungiamo, infatti, la baita
dell’alpe Combana (m. 1810). Questa parte del sentiero suscita
emozioni contrastanti: gli alpeggi offrono scenari gentili ed aperti,
ma i boschi lasciano intravedere versanti che cadono, ripidi, sugli
anfratti ombrosi di valli profonde, la val Combana e, ancor più,
la successiva val di Pai. La deviazione a sinistra, ignorata, porta
proprio nel cuore di questa seconda valle, ad un ponte sul torrente,
che permetterebbe di accorciare il percorso di un buon tratto. Meglio,
però, rimanere più in alto.
All’alpe Combana, oltretutto, ci viene offerta l’occasione
di un secondo interessante fuori-programma, che richiede circa due ore
di supplemento di marcia. Invece di proseguire verso la casera di Stavello,
prendiamo a destra, risalendo, senza percorso obbligato, la solare e
solitaria parte alta della val Combana. Oltrepassate
un paio di baite dell’alpe Piazzi di Fuori, guadagniamo la conca
terminale. Portiamoci ora nella sua parte sinistra, risalendo verso
il piede della testata fra massi e sfasciumi. Incontreremo, qua e là,
tracce di sentiero. Raggiunto il piede di una formazione rocciosa, troveremo
un sentiero che ci porta facilmente all’erbosa cima del monte
Stavello, a 2416 metri. Dalla conca non è facile individuare
la cima, posta ad ovest-sud-ovest rispetto all’ultima baita dell’alpe.
Sta alla nostra sinistra e non è molto pronunciata.
Torniamo però ora alla baita di Combana: il sentiero se la lascia
alle spalle, sale verso un bel bosco di larici, taglia un dosso e sbuca
nella conca dell’alpe Stavello, dove troviamo un baitone ed una
croce (m. 1944). Da qui la visuale sulla parte occidentale della testata
della val Gerola è particolarmente felice. Propongo un terzo
fuori-programma, più lungo dei precedenti, e quindi riservato
ai grandi camminatori. Dal baitone imbocchiamo il marcato sentiero che
sale, verso sud-ovest, in direzione di una formazione rocciosa, che
viene tagliata: ci introduciamo, così, nell’ampio anfiteatro
dell’alta val di Pai. Siamo su un sentiero, marcato con segnavia
rosso-bianco-rossi, che, superata una baita a quota 2000, si dirige
verso il ben visibile intaglio nella testata della valle, la bocchetta
di Stavello, che viene raggiunta dopo un ultimo ripido tratto. La bocchetta,
a quota 2201, dà sull’alta val Fràina, laterale
della Val Varrone, dalla quale giunge il sentiero Cadorna, tracciato
durante la Prima Guerra Mondiale per portare pezzi d’artiglieria
alle fortificazioni che sono ancora visibili nei pressi della bocchetta
stessa. Troviamo anche una breve galleria scavata nella roccia e che
era parte integrante del sistema di fortificazioni. Dalla bocchetta
parte, verso destra, una traccia di sentiero che, appoggiandosi alla
parte sinistra (di sud-ovest) del crinale, conduce facilmente alla cima
erbosa del monte Rotondo (m. 2495), sormontata da una statua della Madonna.
Il
panorama, da qui, è, nelle giornate limpide, particolarmente
ampio e suggestivo. Questo terzo fuori-programma richiede circa due
ore e mezza di cammino in più.
D’accordo, adesso diamo un taglio ai fuori-programma e torniamo
al sentiero Paniga. Eravamo al baitone di Stavello. Scendiamo al limite
del prato antistante verso sud est (destra). Se guardiamo con attenzione,
vedremo che, quasi intagliato nel fianco roccioso della val di Pai,
parte, verso destra, un sentiero abbastanza largo, ma assai esposto
(per renderlo più sicuro è stato attrezzato con corde
fisse). In breve, però, scendiamo a luoghi più tranquilli,
incontrando subito una deviazione a sinistra, che ci fa scendere verso
il solco della valle. Sono luoghi di grande bellezza, fra i più
suggestivi della val Gerola. Raggiungiamo un’ampia radura, attraversata
in diagonale la quale ritroviamo, non lontano dal torrente, che scende
qui rinserrato in aspre rocce, il sentiero, che ci porta, scendendo
ancora, ad un ponticello (attenzione: se non è stato riparato,
era pericolante; ma non è difficile, se non è piovuto
da poco, attraversare il torrente). Passati sull’altro lato della
valle (il destro), seguiamo un sentiero che, attraversato un bel bosco
e lasciato il torrente sempre più in basso, scende ad intercettare
una pista sopra la località di san Giovanni, poco al di sopra
dei 1400 metri. Dirigiamoci a sinistra: la pista scende per un tratto,
poi intercetta una più larga strada sterrata che sale da Gerola
e Castello a Laveggiòlo. Se però, per sbaglio, si fosse
scesi dalla Val di Pai per il sentiero più basso, che segue il
torrente, ci si sarebbe ritrovati nei pressi di Ravizze, poco al di
sotto dei 1200. Niente di drammatico: proseguendo verso ovest-sud-ovest,
da Ravizze si può facilmente salire ad intercettare la medesima
strada sterrata.
Laveggiòlo, dunque, stupendo nucleo di case e baite a 1471 metri,
posto quasi all’ingresso della Val Vedràno, sul suo lato
settentrionale. Ora
dobbiamo imboccare la pista che sale verso la valle, staccandocene,
però, ben presto sulla sinistra, dove troviamo un sentiero che
scende ad un ponte che ci permette di superare il torrente Vedrano,
risalendo poi, con un tratto ripido, sul versante opposto della valle,
fino ad intercettare di nuovo la pista. Dopo qualche tornante, prestiamo
attenzione ad un cartello che segnala il rifugio Trona, in prossimità
della partenza di un sentiero che sale ripido nel bosco e, in corrispondenza
di un bel tavolo con panca per una sosta, comincia un lungo traverso
sul fianco occidentale della Valle della Pietra, il più occidentale
dei rami nei quali l’alta Val Gerola si divide. Dopo qualche saliscendi,
il sentiero attraversa un torrentello e sbuca poco sotto il rifugio
di Trona Soliva (m. 1907), collocato nella bellissima alpe che si
stende ai piedi del pizzo Mellasc (m. 2465). Il luogo, per la sua apertura,
infonde un fortissimo senso di respiro e serenità: sembrano lontane
forre e boschi ombrosi. Qui tutto, nelle luci della sera, appare rassicurante
e quieto. Siamo in cammino da circa 6-7 ore, fuori-programma esclusi,
e la sosta per il pernottamento appare quanto mai meritata. I circa
1000 metri di dislivello superati si fanno sentire, nelle gambe, ma
non nello spirito. Domani è un’altra
tappa, la quarta.
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Difficoltà |
E (escursionistica) |
Dislivello |
mt. 1000 |
Tempo |
6-7 ore |
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Cartina Kompass n.104 del Parco delle Orobie Valtellinesi - Settore 2 |
Testo e fotografie a cura di M.Dei
Cas |
4: Dal rifugio Trona al rifugio Ca' san Marco
Siamo
a metà del cammino, e gli scenari cambiano. I bei boschi di ombrosi
abeti secolari o di scintillanti larici restano alle nostre spalle.
D’ora in poi il percorso sarà quasi interamente allo scoperto.
Chi si trovasse ad effettuarlo nei periodi più caldi dell’estate,
si attrezzi di conseguenza. In questa quarta tappa attraverseremo l’intera
parte alta della Val Gerola, per approdare alla valle del Bitto di Albaredo,
alla meta del passo di San Marco.
Lasciamo, quindi, il rifugio
di Trona Soliva e, invece di seguito il più evidente sentiero
che punta ad ovest-sud-ovest, per aggirare un dosso e salire alla bocchetta
di Trona, seguiamo il sentiero più basso che, con direzione sud
e poi est-sud-est, punta, dapprima in discesa e poi con andamento sostanzialmente
pianeggiante, alla diga di Trona (m. 1805), già ben visibile
dal rifugio, a sinistra del pronunciato profilo del pizzo di Trona (m.
2510). Il toponimo non rimanda, come credono alcuni, ai tuoni (anche
se le rocce ferrose che caratterizzano l’intera zona attirano
un’abbondante quantità di tuoni), ma alle cavità
nella roccia, dette, appunto, “trune”. Nell’ultimo
tratto risaliamo fino alla passerella in cima al muraglione della diga,
raggiungendone il lato opposto, dove imbocchiamo un nuovo sentiero che
ci costringe ad uno strappetto per raggiungere il fianco orientale della
valle di Trona.
Qui intercettiamo il sentiero che si addentra nella valle e lo percorriamo
in senso opposto (verso sinistra), raggiungendo, a 1835 metri, il filo
del dosso che scende a nord dal pizzo del Mezzodì (m. 2116).
Nell’amena radura sul crinale del dosso troviamo una baita ed
un gentile microlaghetto. Siamo sul sentiero dell’anello dei laghi
della Val Gerola (il numero 8, segnalato anche da segnavia rosso-bianco-rossi),
che ora piega bruscamente a destra, effettuando un traverso sul lato
opposto del dosso, per poi iniziare a scendere, ripido, verso l’imbocco
della val Tornella.
Attraversiamo, così, il torrente che scende dalla valle, e prestiamo
attenzione ad una deviazione a destra, nei pressi di una baita: dobbiamo,
infatti, abbandonare il sentiero, che scende a Pescegallo, e percorrere
quello che si addentra per un tratto nella valle, fino alla sorgente
di quota 1808. Qui, lasciando il sentiero che prosegue a risalire la
valle, deviamo ancora a sinistra, seguendo le segnalazioni, aggiriamo
il dosso che scende dalla Rocca di Pescegallo, ci portiamo sul versante
orientale dei denti della Vecchia e scendiamo all’alpe Salmurano.
Se dovessimo perdere la prima deviazione, poco male: da Pescegallo (m.
1454, il cui nome non ha nulla di ittico o di avicolo, derivando da
“pesc del gal”, cioè “abete del gallo cedrone”)
possiamo comodamente salire all’alpe Salmurano seguendo una pista
carrozzabile. Sul
lato orientale dell’alpe troviamo il rifugio
Salmurano (m. 1848), in corrispondenza del punto di arrivo degli
impianti di risalita per lo sci invernale. Evidentemente possiamo eleggere
questo rifugio come appoggio per dividere in due la tappa, ma, tutto
sommato, se non siamo troppo stanchi ci conviene proseguire.
Scendendo un poco dal rifugio verso destra, troviamo l’imbocco
di un sentiero che, attraversando, in direzione nord-est, una fascia
di larici ed ontani, circondata da diversi paravalanghe, raggiunge la
casera di Pescegallo (m. 1778), salendo poi, in breve, allo sbarramento
che costituisce il lago di Pescegallo (m. 1865), nel quale si specchia
il monte Ponteranica (m. 2378). Anche qui dobbiamo attraversare la muraglia
della diga, raggiungendo il lato opposto (sud), dove, ignorato il sentiero
che sale verso il crinale del lungo dosso che scende fino al monte Motta,
sopra Gerola, ci incamminiamo sul sentiero che attacca, deciso, le ripide
balze sotto il passo del Forcellino (m. 2050), raggiunto dopo qualche
secco tornante (teniamo presente che il sentiero Andrea Paniga è
contrassegnato dalla numerazione 101). Sul passo, stretto intaglio nella
roccia, troviamo una seconda targa in bronzo del sentiero.
Poi cominciamo a scendere in alta val Bomìno (il più orientale
dei rami in cui si divide l’alta Val Gerola), perdendo un centinaio
di metri. Nel primo tratto della discesa le corde fisse rendono più
sicuro un passaggino che, in presenza di neve o con rocce bagnate, può
risultare insidioso. Teniamo,
per un tratto, la quota 1900, prima di ricominciare a salire, gradualmente,
verso il passo di Verrobbio (m. 2026), dove troviamo altri segni di
manufatti militari (una cavità nella roccia ed i resti di fortificazioni).
Poco prima del passo, attraversato un torrentello, troviamo un grazioso
microlaghetto (detto laghetto di Verrobbio).
Raggiunto il passo, eccoci di fronte ad un dilemma amletico: seguire
il lungo filo del crinale che, passando dal monte Verrobbio (m. 2139),
scende al passo di san Marco, oppure la più tranquilla mulattiera
militare, che, scesa a quota 1800 sul fianco alto del Piano dell’Acqua
Nera, in alta Val Brembana, prosegue poi, quasi pianeggiante, fino al
rifugio Ca’ San Marco
(m. 1830), dove si conclude questa quarta tappa. La mulattiera è
un po’ più lunga, ma sicuramente più veloce, perché
la camminata sul crinale non può che essere lenta e cauta. Il
sentierino che lo percorre, infatti, è piuttosto aereo e, in
diversi punti, esposto, per cui, tutto sommato, è sconsigliabile
a chi non abbia una solida esperienza o abbia qualche problema con i
passaggi aerei. Insomma, vedete un po’ voi: io mi terrei sul basso.
Anche perché se giungiamo al rifugio con un po’ di tempo
a disposizione, possiamo impiegarlo per salire ai 1992 metri del passo
di san Marco, per osservare l’ottimo panorama che da qui si gode
sulle cime del gruppo del Màsino: ecco infatti, da sinistra,
il pizzo Badile, il pizzo Cèngalo, i pizzi del Ferro, la cima
di Zocca, la cima di Castello, la punta Ràsica, i pizzi Torrone
ed il monte Sissone. Rimane,
invece, nascosto dietro il lungo fianco orientale della valle del Bitto
di Albaredo il monte Disgrazia. Teniamo presente che, seguendo la strada
asfaltata che dalla Val Brembana sale al passo, incontriamo anche un
secondo rifugio, il San
Marco 2000.
Siamo in cammino da 5-6 ore, ed abbiamo superato un dislivello in salita
di circa 700 metri (nel caso in cui abbiamo seguito la mulattiera che
termina al piazzale del rifugio di Ca’ san Marco). E qui, quasi
sospesi fra Val Brembana e Valtellina, attendiamo, godendoci il meritato
riposo, la quinta giornata di cammino.
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Difficoltà |
E (escursionistica) |
Dislivello |
mt. 700 |
Tempo |
5-6 ore |
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Cartina Kompass n.104 del Parco delle Orobie Valtellinesi - Settori 2
e 3 |
Testo e fotografie a cura di M.Dei
Cas |
5: Dal rifugio Ca' san Marco al rifugio Beniamino
Nella
quinta giornata prenderemo congedo dai luoghi del Bitto, il più
celebre prodotto caseario valtellinese, per entrare in una quarta grande
valle, anch’essa legata ad un’attività casearia di
grande qualità, la Val Tàrtano. Il cammino ha inizio con
la breve salita al passo di San Marco (m. 1992), scavalcato da una strada
asfaltata che congiunge la Val Brembana con la bassa Valtellina, in
quanto scende fino a Morbegno, passando per Albaredo. La strada ha recentemente
sostituito una sorella maggiore di grande importanza storica, quella
via Priula che, tracciata nel secolo XVI, ha permesso, soprattutto nel
secolo XVII, fiorenti commerci fra la Valtellina, che allora era sotto
la signoria della Lega Grigia, cioè dei Grigioni, e la bergamasca,
territorio della Serenissima, cioè della Repubblica di Venezia.
La denominazione stessa del passo è eloquente. Ed è proprio
su questa via che ci dobbiamo, ora, incamminare. La troviamo a sinistra
della strada, vicino all’aquila che sorveglia il passo. Scende
verso nord, con un tracciato tranquillo, ad alcuni dossi erbosi sottostanti,
poi comincia a perdere quota in uno scenario ingentilito da radi larici,
fino a piegare leggermente a destra e calare, con qualche ripido tornante,
alla piana dell’alpe di Orta Vaga (1694). Purtroppo
dobbiamo ben presto lasciarla, perché il sentiero se ne stacca
proprio in corrispondenza della casera: dobbiamo, infatti, seguendo
le segnalazioni, staccarcene sulla destra, raggiungere le baite dell’alpe
e, sfruttando la pista che le congiunge alla strada asfaltata, risalire
a quest’ultima, dopo aver attraversato il torrente. Tornando per
un tratto verso il passo, dobbiamo superare un tornante sinistrorso
e, al successivo tornante destrorso, staccarci dalla strada sulla sinistra,
sfruttando un sentiero che guadagna la quota 1900 ed aggira il largo
dosso che scende, verso nord-ovest, dal pizzo d’Orta (m. 2183).
Nella traversata, superiamo la baita di quota 1856, fra bei pascoli,
anch’essi legati alla produzione del famoso Bitto. Stiamo entrando
nell’anfiteatro della valle di Pedéna, sul cui crinale
è collocata l’ampia sella che costituisce il passo omonimo,
incorniciato a destra (sud) dal monte Azzarini (m. 2431) ed a sinistra
(nord) dal monte Pedena (m. 2399). Il sentiero riguadagna quota 1900
ed attraversa una buona metà della valle, giungendo ad intercettare
la traccia che sale dalla casera sottostante, nei pressi della strada
(Casera di Pedena, m. 1560). Piegando a destra, in direzione sud-est,
ci dirigiamo facilmente alla larga linea del passo, posto a 2234 metri.
Un masso ci conferma, con la sigla GVO, che siamo sempre sulla Gran
Via delle Orobie. Ci siamo affacciati sull’anfiteatro della val
Budria, il più occidentale dei due rami in cui si divide la Val
Corta, a sua volta ramo occidentale dell’alta Val di Tàrtano.
Dobbiamo, ora, scendere alla baita dei Pradelli di Pedena, a 2024 metri.
La
traccia è assai labile, ma la discesa, un po’ ripida in
alcuni tratti, può avvenire anche a vista, tenendosi sempre a
destra di una fascia di massi precipitati dal fianco sud-orientale del
monte Pedena. Raggiunta la baita, non proseguiamo verso sinistra (nord-est),
sul sentiero che scende in val Budria, ma pieghiamo decisamente a destra,
seguendo le indicazioni di un cartello ed imboccando un sentiero ben
tracciato che si dirige all’ampia conca nella quale precipitano
le balze del passo. Inizia, così, la facile traversata dell’alta
valle, con qualche saliscendi, ad una quota che dai 2000 metri si approssima
gradualmente ai 2100. Passiamo, così, a valle del singolare ed
isolato pizzo del Vento (m. 2235) e della bocchetta di Budria, sul crinale
che separa la valle dalla Val Brembana. Si tenga presente che la cartina
Kompass del Parco delle Orobie Valtellinesi indica, invece, un percorso
più lungo e dispendioso, che prevede una discesa che porta oltre
la casera di val Budria (m. 1488) ed una risalita sul fianco orientale
del dosso che scende dal Foppone, fino alla casera di Lemma alta: direi
che non ne vale proprio la pena. Raggiungiamo, dunque, il limite orientale
della valle, tenendoci in quota: ci attende un breve strappo, sul ripido
crinale che la separa dalla val di Lemma, fino ad una piccola sella
erbosa, a circa 2150 metri, sul crinale che scende, verso nord, dal
monte Tartano (m. 2292). Tocchiamo, così, i primi lembi del secondo
ramo della Val Corta. L’alta val di Lemma è, a sua volta,
divisa in due alpi terminali, separate da un dosso che scende dal pizzo
del Vallone (m. 2249). La prima che incontriamo è l’alpe
de Sona di Sopra, oltre la quale si trova l’alpe di Lemma alta.
Dobbiamo scendere verso il pianoro della prima alpe, per poi piegare
a destra, seguendo i segnavia, e puntare in direzione del dosso, aggirato
il quale, tenendoci ad una quota di poco inferiore ai 2000 metri, raggiungiamo
la casera di Lemma alta (m. 1986), a cui sale anche un sentiero dal
fondovalle. Dobbiamo
ora effettuare la traversata della parte alta dell’alpe. Se perdiamo
i segnavia (la traccia si fa qui molto incerta), possiamo anche procedere
a vista. Una variante interessante prevede la salita al passo di Lemma,
quasi sulla verticale della casera, appena un po’ spostato a sinistra
(m. 2137). Al passo giunge anche, dalla val Brembana, una mulattiera.
Senza più scendere nella valle, possiamo ora seguire il crinale,
con qualche saliscendi, fino all’erbosa cima di Lemma (m. 2348),
che chiude a sud est la valle, affacciandosi sulla testata della Val
Lunga. I segnavia del sentiero individuano, invece, un percorso appena
più basso, che passa attraverso il passo della Scala, appena
sotto la cima. Senza scendere al passo, appoggiamoci al versante bergamasco
del crinale che scende verso est dalla cima, calando così facilmente,
su traccia di sentiero, al passo di Tartano (m. 2108), presidiato da
una ben visibile croce. Anche questi luoghi recano diverse tracce delle
fortificazioni della Prima Guerra Mondiale, che, per fortuna, non giunse
però mai ad insanguinare il suolo orobico. La quinta e penultima
tappa sta volgendo al termine: dobbiamo, intatti, ora scendere al rifugio
Beniamino, in località Arale (m. 1500), per il pernottamento.
Se, però, abbiamo tempo, non perdiamo l’occasione per visitare
i tre laghetti di Porcile, il lago Piccolo, il lago Grande (m. 2030)
ed il lago di Sopra (m. 2095). I primi due li troviamo sul sentiero
per la discesa (il primo) o appena più in alto, sulla destra
(il secondo), mentre per salire al terzo dobbiamo seguire, dalla sponda
sud del lago Grande, i segnavia che segnalano il sentiero che porta
al passo di Porcile (m. 2290), ben visibile in alto, un po’ spostato
a sinistra. Si tratta di tre laghetti con disposizione a rosario, giustamente
famosi per la loro bellezza. Tornati
al lago piccolo, scendiamo rapidamente, dapprima verso nord ovest, fino
ad una baita isolata, poi verso nord est, cioè verso destra,
alla bella conca dove si trovano le baite di Porcile (m. 1803). Sul
limite inferiore di destra della conca, superato il torrente, troviamo
l’evidente sentiero che prosegue nella discesa, oltrepassando
anche il torrente che scende dalla val Dordonella e conducendo, oltre
un piccolo boschetto, alla località Arale, dove, fra alcune altre
baite, troviamo il rifugio, alla sommità di ripidi prati che
terminano ad una pista sterrata (si tratta della prosecuzione della
strada che da Tartano sale, fino ad una galleria paravalanghe, in Val
Lunga). Si tratta di una tappa abbastanza faticosa, dal momento che
diversi saliscendi impongono il superamento di un dislivello complessivo
di circa 1300 metri, in circa 6 ore di cammino. Ma possiamo ben essere
orgogliosi del cammino sin qui fatto, e questo non può che caricarci
di rinnovate energie per la sesta ed ultima tappa.
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Difficoltà |
E (escursionistica) |
Dislivello |
mt. 1300 |
Tempo |
6 ore |
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Cartina Kompass n.104 del Parco delle Orobie Valtellinesi - Settori 3
e 4 |
Testo e fotografie a cura di M.Dei
Cas |
6: Dal rifugio Beniamino a Fusine
Eccoci
giunti all’ultima tappa del sentiero, che prevede una traversata
dalla Val di Tartano alla Val Madre, con il conclusivo ritorno al piano
della media Valtellina, a Fusìne. Val di Tartano e Val Madre
sono, fra le valli orobiche, quelle che presentano il maggior numero
di valichi che le pongono in comunicazione. Ce ne sono, infatti, ben
cinque. Il più settentrionale è il passo di Vicìma,
posto al culmine dell’omonima valle, la prima laterale che trova,
sulla sua sinistra, chi si addentra in Val di Tartano. Oltre i 2234
metri del passo si scende in val Bernasca, laterale della Val Madre,
dove si trova il grazioso laghetto di Bernesca. Il secondo valico, procedendo
verso sud, è la bocchetta, senza nome sulle carte militari, che
congiunge le estreme propaggini dell’alpe Gerlo, sul lato orientale
della Val Lunga, di nuovo con la val Bernasca. Poco più a sud
si trova una seconda bocchetta senza nome, a quota 2410, nella parte
più alta dell’alpe di Canale: sul lato della Val Madre
troviamo la val Cògola. Avvicinandoci
alla parte alta della Val Lunga, troviamo il passo di Dordonella (m.
2320), al culmine dell’omonima valle, la prima che abbiamo trovato
sulla nostra destra, scendendo dalle baite di Porcile. Oltre il passo
ci si ritrova in alta Val Madre, non molto distanti dal passo di Dordona.
Infine, ecco il valico che ci interessa, il passo o bocchetta dei Lupi,
in fondo all’omonima valle, il cui nome richiama i tempi nei quali
queste zone erano battute dall’animale che, nell’immaginario
di molti, suscita arcani timori. Lasciamo, dunque, il rifugio Beniamino
e ripercorriamo, a ritroso, il sentiero verso le baite di Porcile, a
1803 metri. Se non abbiamo ancora visitato i laghetti di Porcile, non
possiamo mancare di salire a vederli, portandoci sul lato di sud-ovest
della piana e risalendo, verso destra, il dosso che la sovrasta, fino
alla baita di quota 1900, dove troviamo un bivio: proseguendo a destra
si sale al passo di Tartano, prendendo a sinistra ci si dirige ai laghetti.
Incontriamo così ben presto il lago Piccolo (m. 2005) e, appena
sopra, il lago Grande (m. 2030); un sentiero che parte dal lato di sud-ovest
di quest’ultimo sale al lago di Sopra (m. 2095), proseguendo,
poi, per il passo di Porcile (m. 2290). Torniamo,
poi, al lago Grande: con una facile e breve traversata verso est, ci
portiamo alla bella conca (ciò che resta, probabilmente, di un
quarto laghetto) ai piedi della val dei Lupi, dove si trova anche una
baita (m. 1975). Alla conca si può anche salire direttamente
dalla piana di Porcile, imboccando un sentiero che parte più
o meno all’altezza delle baite, ma sul lato opposto della piana,
cioè su quello orientale. Dopo un tratto nella boscaglia, il
sentiero effettua un traverso all’aperto, tenendosi sul lato orientale
del vallone nel quale scende il torrentello della val dei Lupi. Questa
salita taglia fuori i laghetti, e ci porta ai piedi del canalone erboso
che sale fino alla bocchetta dei Lupi (m. 2316). L’ultimo tratto
della salita è un po’ ripido, ma alla fine ci affacciamo
sull’alta Val Madre. Dopo aver disceso il canalino terminale,
giungiamo ad un bivio: mentre il sentiero di sinistra scende verso la
casera di Dordona (m. 1950), quello di destra effettua un traverso nell’alta
valle, passa nei pressi di un bel microlaghetto, supera tre valloncelli
e conduce alla baita della Croce (1944), dove, effettivamente, si trova
una croce, ma anche un crocevia: si intersecano qui, infatti, la Gran
Via delle Orobie, che prosegue verso la casera di Valbona ed il passo
omonimo (con successiva discesa in Val Cervia) ed il sentiero che dalla
Val Madre sale al passo di Dordona, che la unisce all’alta Val
Brembana. Dobbiamo salutare la Gran Via ed immetterci su questo secondo
sentiero. Se
abbiamo tempo, una puntata all’ormai vicino passo di Dordona (m.
2061) non può mancare: fra i motivi di interesse del passo, uno
dei più frequentati nodi di comunicazione fra Valtellina e bergamasca,
nei secoli scorsi, sono indubbiamente i resti delle fortificazioni militari
risalenti alla Prima Guerra Mondiale, ed in particolare un osservatorio
scavato nella roccia per dominare visivamente la Val Madre ed avvistare
da lontano eventuali nemici. Oggi ciò che da qui avvistiamo è
solo il bel profilo del monte Disgrazia, che domina, verso nord, il
panorama. Torniamo, poi, sui nostri passi, scendendo tranquillamente
verso il fondovalle. Passiamo, così, più in basso rispetto
alla casera di Dordona e, dopo qualche tornante, ci ritroviamo alla
piana che si stende ai piedi della parte alta della valle. Qui attraversiamo
il torrente su un ponticello e, portandoci sul lato destro della valle,
guadagniamo rapidamente una strada sterrata sulla quale proseguiamo
la discesa, raggiungendo dapprima la baita Forni (m. 1452), poi la località
Tegge (m. 1255) ed infine le poche case e la bella chiesetta di Val
Madre (m. 1195). La successiva e conclusiva discesa verso Fusìne
avviene comodamente sulla strada, con fondo in terra battuta prima,
in asfalto poi, passando per la bella chiesetta della Madonnina (m.
552). Raggiungiamo
il paese (m. 285) dopo circa 6 ore di cammino, avendo superato circa
820 metri in salita. Se non disponiamo dell’appoggio di una seconda
automobile, teniamo presente che dalla stazione di San Pietro-Berbenno
possiamo raggiungere, con il treno, Delebio. Si conclude così
un cammino destinato a lasciare un segno indelebile negli amanti del
trekking, soprattutto perché avviene, in buona parte, in luoghi
che non sono fra i più frequentati dai cultori della camminata
ed in ambienti che regalano ancora ampi squarci di natura incontaminata
e selvaggia, su una quota media ragguardevole (1800 metri), ma senza
passaggi rischiosi o particolarmente impervi. L’unica avvertenza
è di non effettuare il percorso nel periodo primaverile, anche
avanzato, in quanto la neve residua, soprattutto se marcia, potrebbe
costituire un ostacolo da non sottovalutare, oltre che rendere più
problematico il riconoscimento del sentiero.
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Difficoltà |
E (escursionistica) |
Dislivello |
mt. 820 |
Tempo |
6 ore |
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Cartina Kompass n.104 del Parco delle Orobie Valtellinesi - Settore 4 |
Testo e fotografie a cura di M.Dei
Cas |
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