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Il Sentiero Life delle Alpi Retiche
Dal
cigno alla pernice bianca
1a Tappa - Da Dascio a Codera
L’ E.R.S.A.F.,
Ente Regionale per i Servizi all’Agricoltura e alle Foreste, sta
completando (luglio 2006) la pulizia, l’attrezzatura e la segnaletica
di una nuova importante traversata, in sei giornate (meglio,
cinque effettive più una aggiuntiva), dal Pian di Spagna
alla piana della Val Torreggio, in Valmalenco, ai piedi dei Corni
Bruciati. Si tratta dell’itinerario denominato “Sentiero
Life delle Alpi Retiche – Dal cigno alla pernice bianca”,
e si affianca alle due importanti traversate già esistenti sulla
medesima direttrice, il più basso Sentiero
Italia Lombardia nord 3 ed il più alto e celebre Sentiero
Roma. La traversata è stata individuata con la collaborazione
delle Scuole d’Alpinismo, Scialpinismo e Arrampicata “Associazione
Guide alpine Val Chiavenna” e “Il Gigiat”, e si inserisce
nel Progetto Life Natura 2000, denominato “Reticnet: 5 siti per
la conservazione di zone umide e habitat prioritari”, il primo progetto
di conservazione ambientale all’interno del territori del futuro
Parco Val Codera, Disgrazia, Bernina.
Cinque sono, infatti, i S.I.C. (Siti di Importanza
Comunitaria) toccati dal sentiero, la riserva naturale del Pian
di Spagna (IT 2040022), la Val Codera (IT 2040018), la Valle dei Ratti
(IT 2040023), la Valle di Mello – Piano di Preda Rossa (IT 2040020),
i Bagni di Masino – Pizzo Badile – Pizzo del Ferro (IT 2040019).
Fra i suoi molteplici elementi di interesse (scenari di forte impatto
visivo, ambienti di primario valore naturalistico) non ultimo è
la possibilità, che esso offre, di visitare luoghi molto poco conosciuti,
quindi di sicuro interesse per gli amanti di una montagna meno affollata
e battuta.
Eccone, in sintesi, l’articolazione. Nella prima giornata
si parte da Dascio, sul lago di Mezzola, si raggiunge il tempietto romanico
di S. Fedelino, si effettua la traversata
in traghetto a Novate Mezzola e di qui si sale a Codera. Nella seconda
si effettua la traversata Val Codera-Valle dei Ratti, seguendo per un
tratto il Tracciolino e salendo, lungo il vallone di Revelaso, alla forcella
di Frasnedo, per poi scendere a Frasnedo. Nella terza
si passa per il bivacco
Primalpia e per il passo omonimo, raggiungendo l’alta Valle
di Spluga (Val Masino), che si attraversa in quota fino al passo del Calvo,
il quale consente la finale discesa al rifugio
Omio in Valle dell’Oro. Nella quarta si scende,
sul sentiero Omio-Bagni Masino, al pian del Fango e di qui si risale all’alpe
Sceroia ed al pianone della Val Porcellizzo, per poi tornare a scendere
alla Casera Vecchia di Porcellizzo e di qui imboccare il sentiero che,
passando per il Brasco, conduce all’imbocco della Val di Mello.
Nella quinta giornata da S. Martino ci si inoltra in
Val di Mello, risalendo tutta la Val Romilla (sua laterale meridionale)
fino al passo omonimo, per il quale, alla fine, si scende alla piana di
Preda Rossa, intercettando il sentiero per il rifugio Ponti, per poi salire
al rifugio medesimo o scendere all’alpe di Sasso Bisolo, dove si
trova il rifugio Scotti.
Nella sesta giornata, da considerarsi aggiuntiva rispetto
al Sentiero Life in senso stretto, si effettua, infine, la traversata
dal rifugio Ponti al rifugio
Bosio per il passo di Corna Rossa (alternativa A), oppure la traversata
dal rifugio Scotti al rifugio Bosio passando per la Val Terzana, il passo
di Scermendone, l’alta Valle di Postalesio ed il passo di Caldenno
(alternativa B).
Eccezion fatta per la prima e la terza tappa, si tratta, dunque, di un
percorso da trekking di impegno paragonabile al celeberrimo Sentiero Roma,
e quindi riservato ad escursionisti esperti ed allenati. Vanno quindi
offerte alcune avvertenze generali. Il sentiero non richiede
una specifica preparazione alpinistica, ma non va neppure preso sotto
gamba. Nella quarta giornata ci sono alcuni passaggi attrezzati, per cui
è necessario munirsi di cordino e moschettone per assicurarsi alle
corde fisse. Non è affatto prudente affrontarlo da soli, o in condizioni
di allenamento non adeguate. È del tutto sconsigliabile,
poi, affrontarlo con neve o nelle giornate di tempo brutto (la segnaletica
è ottima, per cui i problemi di orientamento sono minimi, ma il
rischio di essere sorpresi da temporali in luoghi “fuori mano”
è elevato). Non si confidi nei telefonini: per la maggior parte
del percorso restano desolatamente muti. Un ultimo ammonimento, se ce
ne fosse bisogno: attenzione ai sassi mobili, che escursionisti poco attenti
possono involontariamente lanciare sui malcapitati che si trovano più
in basso: sono veri e propri proiettili, possono uccidere. Il periodo
migliore per effettuare la traversata è quello compreso fra luglio
e settembre (anche ottobre è un ottimo mese, se già non
è nevicato in quota). Per il resto dell’anno la neve può
costituire un’insidia di non poco conto.
È tempo, però, di entrare nel merito della prima tappa,
da Dascio a Codera. Dascio è un grazioso borgo
che si trova sulle rive di una diramazione meridionale del lago di Mezzola.
Chi proviene da Milano lo può raggiungere, uscito dalla superstrada
Lecco-Colico, prendendo in direzione della Valchiavenna e poi di Como.
Proprio all’imbocco della ss. Regina, che costeggia la riva occidentale
del Lario fino a Como, si trova il Ponte del Passo, superato il quale
si prende subito a destra, imboccando una stretta stradina asfaltata (indicazione
per Dascio). Raggiunto il paesino, lasciamo l’automobile nei pressi
della chiesetta, al parcheggio del lungolago. Il sentiero ha come sottotitolo
“dal cigno alla pernice bianca”: ebbene, è questo il
momento del cigno, dal momento che ci potrà capitare di scorgerne
qualche superbo esemplare sulle acque del laghetto che costituisce una
sorta di diramazione meridionale del più grande lago di Novate
Mezzola. Se, però, invece di cigni vedremo qualche simpatica anatra,
non restiamo delusi: anche questi animali meritano la nostra curiosa attenzione.
Cominciamo, poi, a salire, da una quota di 203 metri, lungo la via Bruga,
seguendo le indicazioni per il tempietto di S. Fedelino, dato a 2 ore.
Dopo un tornante destrorso, la strada asfaltata termina, lasciando il
posto ad una carrozzabile sterrata. Affisso su un vecchio lavatoio troviamo
il primo cartello giallo dell’Ersaf, con la denominazione del sentiero.
Ne troveremo altri, nei principali snodi della lunga traversata. Superate
alcune baite, ci portiamo, salendo
leggermente, al tempietto dedicato ai caduti in guerra, posto, in posizione
panoramicissima, sul cosiddetto “Sasso di Dascio” (m. 277).
Troviamo, qui, un pannello che illustra le caratteristiche della Riserva
Naturale Pian di Spagna – Lago di Mezzola. Da esso
apprendiamo che il Pian di Spagna si trova sul corridoio dello Spluga,
uno dei punti di più agevole attraversamento dell’arco alpino,
ed è crocevia di importanti rotte di migrazione, per cui ospita,
durante l’inverno, diverse specie di uccelli legati alle zone umide.
La sua importanza eccezionale è legata al fatto che è rimasto,
insieme con le Bolle di Magadino, in canton Ticino, alle torbiere del
lago d’Iseo ed ai laghi della Brianza, l’unica area umida
di un certo rilievo superstite sul versante meridionale della Alpi. Per
questo motivo nel 1971 è stato segnalato, nella Convenzione di
Ramsar, come zona umida di interesse internazionale ed è diventato,
nel 1985, riserva naturale. La sua denominazione deriva dalla presenza
spagnola nei secoli XVI, XVII e XVIII. Gli spagnoli, che possedevano il
ducato di Milano, per fortificare questa regione di confine (la Valtellina
era possesso della lega Grigia), edificarono proprio qui, fra il 1603
ed il 1606, quella fortezza che prese il nome dal conte di Fuentes, governatore
di Milano. A quel tempo, dopo una serie di rovinose alluvioni, l’Adda
sfociava nel lago di Como proprio presso il ponte del Passo, e si era
formata un’area paludosa e malsana che divideva il lago di Como
in due parti. Furono gli Austriaci a bonificare la zona, fra il 1700 e
la metà del 1800, realizzando anche l’attuale canale dell’Adda.
Queste note ci aiutano a capire l’importanza naturalistica e storica
del piano che possiamo, da qui, dominare in tutta la sua bellezza, incorniciato,
a sud, dall’inconfondibile corno del monte Legnone, l’ultima
vetta significativa della catena orobica occidentale. A sinistra del monte
Legnone si apre un interessante spaccato della Val Lésina. Più
a sinistra ancora, dopo il lungo crinale che scende dai monti Brusada
e Bassetta (linea di confine fra Costiera dei Cech e Valchiavenna), ecco,
infine, la Valle di Ratti, che mostra la sua sezione bassa e mediana,
nascondendo però buona parte della sua testata. Avremo modo di
conoscerla da vicino durante la seconda e, soprattutto, la terza tappa.
Dopo
un bel tratto con fondo in grisc (pietra arrotondata disposta con sapienti
geometrie), eccoci ad un bivio, al quale dobbiamo prendere a destra, seguendo
le indicazioni del Sentiero del Giubileo 2000, nel quale,
ora, ci immettiamo. Il sentiero, segnalato con segnavia rosso-bianco-rossi
e bianco-rossi, segue l'antico tracciato della Via Regina, che percorre
il lato occidentale del Lario, nel punto in cui questa si innalza, rispetto
alla, sponda del lago e punta in direzione della Valchiavenna e dei passi
alpini. L’interesse religioso del sentiero, che per questo è
stato inserito nel Sentiero del Giubileo, è legato al fatto che
conduce al luogo nel quale fu, secondo la tradizione, martirizzato, il
28 ottobre del 298 d.C., uno dei padri della fede nel comasco, San Fedele,
cui è dedicato il già menzionato tempietto di S. Fedelino.
Dopo aver incontrato un masso sul quale il tempietto è dato, un
po’ pessimisticamente, a tre ore di cammino (ma non s’era
detto due ore…?), la carrozzabile lascia il posto ad un sentiero
che si immerge nel bosco, scendendo, ben presto, ad uno splendido ponte
in pietra che scavalca la forra scavata dal torrente del Vallone del Poncio.
Sul lato opposto, riprendiamo a salire e, superati alcuni ruderi, incontriamo,
sempre nel cuore del bosco di castagni, un bivio, al quale prendiamo a
destra. Il sentiero attraversa, su un ponte di legno, anche una vallecola
minore, proponendo, subito dopo, un tratto in salita elegantemente scalinato.
Un successivo tratto pianeggiante propone alcuni castagni secolari, alberi
cavi e gemini, simbolo di una vita che sembra attraversare, con radici
tenaci, i flutti ed i marosi della storia. Il luogo ha un sapore quantomeno
arcano, che si gusta appieno solo nel più profondo silenzio. Avanti
ancora, fino ad un nuovo rudere, oltrepassato il quale usciamo all’aperto.
Incontriamo un secondo cartello del Sentiero del Giubileo, sotto il quale
è posta anche la piccola targhetta quadrata con la scritta gialla
“Life” contornata da 12 stelle, su fondo azzurro, una targhetta
che incontreremo spesso, nel cammino. Un nuovo tratto nel bosco, ed eccoci,
dopo una specie di corridoio nella roccia, di nuovo all’aperto,
in un tratto molto panoramico (ottimo il colpo d’occhio sul lago
di Mezzola: il laghetto di Dascio appare già lontano, mentre, dai
boschi di mezza costa, a destra, emerge il campanile di Albonico). Possiamo
vedere, ora, in basso, anche Novate
Mezzola, alle cui spalle la bassa Val Codera nasconde di sé molto
più di quanto mostri. Siamo al punto più alto di questa
prima sezione della prima giornata, a 472 metri. Ora si comincia a scendere,
rientrando anche nel bosco, fino ad un cartello della Comunità
Montana di Val Chiavenna, che ci segnala che siamo sul percorso storico
della Via Regina.
Il cartello è posto ad un bivio. In entrambe le direzioni si può
raggiungere S. Fedelino. La direzione di destra, nonostante sia leggermente
più impegnativa in discesa, merita, però, di essere scelta,
perché passa per la sommità del cosiddetto Salto
delle Capre (o Mot di Bech, a m. 329). Si tratta di un precipizio
alla cui sommità giungiamo quasi subito. Il luogo, ottimo belvedere
naturale sul lago di Mezzola, è costituito da una roccia posta
in sicurezza da un parapetto (non è proprio il caso di sporgersi!).
Sul fondo del precipizio è posta una spiaggetta in un’insenatura
del lago di Mezzola. Suggestivo davvero il panorama: sulla destra un vertiginoso
salto gemello, più a sinistra i paesi di Verceia (all’imbocco
della Valle dei Ratti) e, seminascosto, Novate Mezzola (all’imbocco
della Val Codera). La bassa Val Codera è dominata dall’inconfondibile
profilo del Sasso Manduino (m. 2888), massiccio e squadrato, uno dei simboli
più rappresentativi di queste montagne. Dopo esserci goduti il
panorama, riprendiamo la discesa, su un comodo sentiero che, però,
lascia il posto, più in basso, ad una traccia tormentata che sembra
precipitare, fra alcune roccette, su un corpo franoso di sassi bianchissimi.
Il superamento delle roccette richiede cautela; sul corpo franoso, invece,
la traccia di destreggia con eleganza.
Al termine della discesa, un cartello ci indica la direzione (sinistra)
per il tempietto
di S. Fedelino, e, in breve, siamo all’amena radura
che, sulle rive del fiume Mera, ospita questo luogo sacro (m. 200). Si
tratta di un tempietto romanico che risale al 964, edificato, in sostituzione
di un precedente tempietto andato in rovina, sul luogo nel quale fu decapitato
e sepolto, il 28 ottobre del 298 d.C., uno dei padri della fede nel comasco,
San Fedele, soldato romano che pagò con la vita l’adesione
alla nuova fede cristiana. L’edificio, proprietà della parrocchia
di Novate Mezzola, ha dimensioni davvero ridotte (m. 6,2 x m. 4,5) ed
ha una pianta
quadrata, con l’abside rivolta ad est, il punto cardinale che simboleggia
la luce nascente. Sul lato opposto, ad ovest, dovrebbe trovarsi la facciata,
che però è addossata alla roccia del monte Berlinghera,
in quanto il tempietto venne costruito sullo stretto lembo di terra compreso
fra il monte ed il lago, che ora si è ritirato, lasciando il posto
al fiume Mera, che scende dalla piana di Chiavenna. E’ possibile
ammirarne l’interno solo nei giorni in cui viene aperto al pubblico
(da Marzo ad Ottobre, il sabato, la domenica e nei giorni festivi negli
orari 11-12 e 14.30-16.30, oppure su prenotazione; l’ingresso è
soggetto al pagamento di una tariffa; telefonare, per informazioni, ai
numeri 034344085, 034336384, 034337485, 034333442 o 034482572).
Un sentiero lascia, in direzione nord-ovest, il tempietto, proponendo,
dopo due tratti serviti da scale metalliche (che hanno sostituite le precedenti
suggestive scale in legno) per superare altrettanti salti di roccia, un
lungo tratto pianeggiante e congiungendosi con il Sentiero del Giubileo
(che abbiamo lasciato al bivio sopra menzionato, per visitare il Salto
delle Capre). Il sentiero raggiunge, poi, i ruderi della chiesa di S.
Giovanni all’Archetto, chiesa medievale (ricostruita nel Seicento)
che era collocata nei pressi del punto al quale giungeva allora il lago
di Como (m. 205; siamo in comune di Samolaco, dal latino Summo Lacu, cioè
il punto più alto del lago). Di qui una carrozzabile raggiunge
la strada asfaltata in località Casenda; seguendola e prendendo
a destra, raggiungiamo la via Trivulzia presso il Ponte Nave, sul fiume
Mera; seguendola verso sud-est, raggiungiamo, dopo 3 km, Novate Mezzola,
dove comincia il secondo segmento di questa prima tappa. Ma questa faticosa
e noiosa camminata può essere evitata passando direttamente, via
traghetto, da S. Fedelino a Novate Mezzola. Il servizio di traghetto prevede
l’imbarco presso il ristorante La Barcaccia di Verceia, con partenza
mattutina alle 10.30 e ritorno alle 12.30, con partenza pomeridiana alle
13.30 e ritorno alle 16.15. Il numero telefonico del ristorante, per informazioni,
è 034344164.
Bene,
via terra o, più comodamente, via fiume, eccoci a Novate
Mezzola, paese posto all'imbocco della Val Chiavenna. Dobbiamo
ora, seguendo le indicazioni per la Val Codera, salire alla parte alta
del conoide di deiezione che ospita l’abitato, e precisamente dai
316 metri del parcheggio di Mezzolpiano, dal quale si stacca una bellissima
mulattiera, larga un paio di metri, spesso scalinata ed incisa nel granito
(il famoso San Fedelino, che deve la sua denominazione proprio alla devozione
a S. Fedele, di cui già si è detto). La Val Codera e la
Valle dei Ratti sono le uniche, fra le valli maggiori della provincia
di Sondrio a non essere accessibili alle automobili: questo ha contribuito
a conservarne le caratteristiche naturali, conferendo ad esse un fascino
per molti aspetti unico e giustificando il loro inserimento fra i siti
di interesse comunitario. Il tratto Mezzolpiano-Codera fa parte anche
della prima tappa degli altri due grandi sentieri che effettuano la traversata
Novate-Val Masino, il Sentiero Italia Lombardia Nord 3 ed il Sentiero
Roma. La mulattiera sale, nel primo tratto, in un bosco di castagni.
Le fatiche iniziali impongono qualche sosta, anche perché il fiato
non è ancora rotto. In particolare, ad una prima cappelletta ci
si può volgere alle spalle per ammirare l’ottimo colpo d’occhio
sul Pian di Spagna e sul lago di Novate Mezzola, cui fa da cornice, sul
fondo, spostato a sinistra, il massiccio corno del monte Legnone, che
abbiamo già imparato a riconoscere. Poi alla cornice di un gentile
bosco di castagni si sostituisce quella più severa della nuda roccia,
il granito, signore del Sentiero Roma. Il sentiero è qui scavato
proprio nel granito, e solo così può scavalcare la forra
terminale della valle, che precipita, selvaggia, per circa 300 metri,
sul fondo del torrente Codera.
Più avanti, incontriamo, a quota 714, una seconda cappelletta,
al culmine dello sperone roccioso che veglia il fianco settentrionale
della bassa Val Codera; poi ci tocca una prima discesa, all’ombra
di un bosco di betulle, olmi e castagni, fino ad un valloncello, superato
il quale riprendiamo a salire, fino all'abitato di
Avedee, posto a 790 metri, sul lungo dosso che scende
verso sud-est dal monte omonimo (m. 1405). Dalle sue baite solitarie si
vede bene Codera, il centro principale della valle. Sulla sua verticale,
il pizzo di Prata (m. 2727), denominato anche “Pizzasc”, che
sovrasta, sul lato opposto della catena montuosa, anche Prata Camportaccio.
Ad Avedèe troviamo anche graziosa chiesetta.
Ci tocca, ora, un tratto in discesa, elegantemente scalinato, con qualche
tornante: scendiamo di un centinaio di metri per superare valloni dirupati,
che ci impongono poi diversi saliscendi, ed anche l’attraversamento
di due gallerie paramassi. Prima della seconda, superiamo un breve tratto
nel quale la montagna sembra incombere proprio sul nostro capo: un grande
roccione si ripiega sopra la nostra testa, come una bocca pronta a richiudersi.
Attraversata la seconda gallerie si torna a salire, si incontra una nuova
cappelletta e si raggiunge il piccolo cimitero del paese. Una scritta
sulla parete della cappelletta antistante ci invita a meditare sulla fragilità
della condizione umana: “Ciò che noi fummo un dì voi
siete adesso, chi si scorda di noi scorda se stesso”. No, non ci
vogliamo scordare di chi riposa qui. Delle generazioni che qui, in questa
valle aspra ed insieme dolce, hanno visto dipanarsi l’intero filo
dell’esistenza, un’esistenza quieta, severa, anche misera,
difficilmente immaginabile. L’esistenza di chi ha dovuto strappare
alla valle di che sopravvivere, mentre noi, ora, strappiamo scampoli di
emozioni profonde. Dentro la cappelletta, la Madonna della visione dell’Apocalisse,
coronata di stelle, nell’atto di schiacciare il dragone-serpente,
simbolo del male. Proseguiamo, incontrando un’altra cappelletta.
Ed ecco, infine, l'imponente campanile della chiesa di S. Giovanni Battista,
a Codera (m. 825), staccato dal corpo della chiesa. E,
nella piazza della chiesa, uno dei due rifugi che qui si trovano, la Locanda
Risorgimento (il secondo rifugio, nella parte più alta del
paese, è denominato "Osteria alpina"). Qui possiamo
pernottare, in attesa della seconda tappa. Approfittiamo della sosta per
fermarci a gustare l'abitato, che non rimane deserto neppure nei mesi
invernali e presenta, fra gli altri motivi di interesse, un caratteristico
museo etnografico, nell’edificio dell’ex-oratorio. Facciamo,
infine, due conti. Il dislivello superato non è eccessivo (900
metri circa), ma lo sviluppo è ragguardevole (approssimativamente
14 km), nell’ipotesi di aver utilizzato il traghetto. Calcoliamo,
dunque, circa 6 ore di cammino.
Chi volesse ulteriori informazioni o aggiornamenti,
può rivolgersi all’ERSAF, a Morbegno (SO), tel. 02 67404.581,
fax 02 67404.599, oppure all’Infopoint ERSAF, tel. 02-67404451 o
02-67404580; può anche scrivere a oscar.buratta@ersaf.lombardia.it,
oppure a life@ersaf.lombardia.it.
Risulta utile anche la consultazione del sito Internet www.lifereticnet.it/italiano/home.htm
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Difficoltà |
E (escursionistica) |
Dislivello |
mt. 900 |
Tempo |
6h |
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2a
Tappa - Da Codera a Frasnedo
Dal punto di vista dell’altimetria e dello sviluppo,
la seconda tappa del Sentiero Life, da Codera a Frasnedo, è analoga
alla prima. Dal punto di vista dell’impegno complessivo, invece,
la si deve considerare più dura, sia per la maggiore altezza media,
sia per la natura del terreno nel quale si articola.
Prima di raccontarla, però, qualche ultimo pensiero su Codera,
un paese che ha saputo conservare la sua identità, anche se dell’intensa
vita contadina del passato (si pensi che a metà del Seicento vivevano
stabilmente qui circa 400 persone) è rimasta solo una modesta,
ma tenace traccia.
È il pensiero che ci accompagna mentre lasciamo le sue case, per
iniziare, con questa seconda tappa, una traversata per molti aspetti unica,
quella che conduce dalla Val Codera alla Valle dei Ratti, traversata che,
nel primo tratto, sfrutta un sentiero che attraversa valloni e dirupi,
mantenendosi costantemente su una quota di poco superiore ai 900 metri.
Si tratta del tracciolino (o trecciolino), incredibile tracciato scavato,
negli anni Trenta del secolo scorso, in gran parte nella viva roccia,
fra dirupi di impressionante vertigine ed ardite gallerie. Esso aveva
la finalità di congiungere, mediante un trenino a scartamento ridotto,
le opere idroelettriche della Valle dei Ratti e della Val Codera. Il tracciato,
con oltre 12 km di sviluppo, congiunge, infatti, la diga della Val Codera,
sopra Codera, con la diga Sondel di Moledana, in Valle dei Ratti.
Partiamo,
dunque, da Codera e seguiamo le indicazioni che conducono
al ponte sul torrente Codera, piccolo capolavoro d’ingegneria, sospeso
sul vuoto: quaranta metri più in basso il torrente, mai stanco,
urla la sua inestinguibile rabbia. Al ponte si scende su un sentierino
che lascia l'abitato staccandosene sulla destra; dopo averlo attraversato,
incontriamo un bivio e prendiamo a destra, raggiungendo ben presto l’impressionante
forra terminale della Val Ladrogno, valicata da un secondo e non meno
ardito ponte, sul cui limite è posta, quasi a proteggere il viandante
da vertigini o apparizioni malefiche, una cappelletta. Poi troviamo un
secondo bivio, prendendo di nuovo a destra e lasciando alla nostra sinistra
le indicazioni per il bivacco Castorate-Sempione; attraversato un più
tranquillo bosco di castagni, saliamo alle case di Cii
(m. 851), deliziosa località dalla quale si gode di un colpo d’occhio
stupendo sul lago di Mezzola e sull’alto Lario. Su un sasso ci viene
dato il benvenuto, ed insieme ci viene rivolto l’invito a rispettare
i prati, invito che deve sempre rimanere ben impresso nella mente dell’escursionista,
perché significa, spesso, rispettare il lavoro di chi strappa ancora
alla montagna, con fatica, di che vivere. Ma proseguiamo: ora il sentiero,
che torna ad inoltrarsi in un bosco più rado, sembra farsi meno
evidente, ma non lo si può perdere: alla fine si congiunge con
il tracciolino.
Seguendolo verso destra, valichiamo il solco della Val Grande, entrando
poi in un bel bosco, sul grande dosso di Cola. Qui il tracciolino
viene tagliato da un sentiero che, percorso in salita, conduce a Cola
(m. 1018), mentre percorso in discesa porta a San Giorgio di Cola. Vale
la pena di perdere circa un’ora rispetto alla tabella di marcia
per visitare questi due paesini. La salita a Cola (si
raggiungono le sue baite, a 1018 metri, in pochi minuti) ci consente di
visitare un luogo immerso in un’atmosfera fuori del tempo, con ottimo
panorama sull'alto Lario. Solo nella bella stagione qualcuno viene ancora
fin quassù: dell’antica e tenace vita sembra si conservi
solo un impercettibile sussurro.
Torniamo poi al tracciolino e lasciamolo subito, in discesa, una discesa
per quasi duecento metri nel cuore impressionante dell’ombroso vallone
di Revelaso, una sorta di Purgatorio da cui si riemergiamo, sul lato opposto
del vallone, superando un tratto di sentiero esposto e non protetto (attenzione,
dunque). La risalita porta, in breve tempo, al bellissimo abitato di San
Giorgio di Cola (m. 748), dove si troveranno sicuramente persone
gentili disposte a regalare indicazioni e consigli. San Giorgio se ne
sta adagiato in una bella conca, nascosta, a chi guarda dal fondovalle,
alle spalle di un impressionante sperone roccioso, sul lato sinistro orografico
della Val Codera, dal quale scende un'ardita mulattiera, quasi gemella
di quella percorsa il primo giorno, che porta alla frazione Campo di Novate
Mezzola. La sua chiesetta, nello splendido marmo San Fedelino, se ne sta,
tranquilla, nel mezzo di prati curatissimi, circondata dall’affetto
e dalla devozione delle case antiche.
Riprendiamo, dalle case alte del paese, il cammino e, seguendo le indicazioni,
incamminiamoci sulla mulattiera che riporta, per via
diversa e più tranquilla (direzione est) al tracciolino. Presso
l'ultima casa del paese, poco prima del cimitero, troviamo un grande masso
nel quale è scavato un avello celtico, che testimonia un'antichissima
colonizzazione del paese. Una leggenda lega questo avello alla prodigiosa,
tremenda e vittoriosa lotta del cavaliere San Giorgio contro il dragone,
che incarnava le forze del male. Superati il cimitero (anch’esso
davvero singolare, posto, com’è, sotto un enorme masso) ed
un bel bosco di betulle, intercettiamo di nuovo il tracciolino, che dobbiamo
percorrere, per un brevissimo tratto, in senso contrario, cioè
verso sinistra, prima di incontrare la segnalazione della partenza del
sentiero che dovremo seguire per salire alla forcella di Revelaso. Si
tratta di una freccia bianca contornata di rosso, posta, insieme con la
targa gialla del Sentiero Life, su un masso a lato del tracciolino, nei
pressi di un traliccio. Se abbiamo scelto di non effettuare il fuori-programma
della discesa a S. Giorgio giungiamo, invece, fin qui più comodamente
seguendo il tracciolino, che attraversa il vallone di Revelaso e propone
un tratto nel quale dobbiamo prestare attenzione, perché esposto
alla caduta di massi.
Dobbiamo, ora, lasciare il tracciolino ed iniziare a salire sul sentiero
che, tagliando il fianco meridionale dell’aspro vallone
di Revelaso (o Val Revelàs, che scende dalla parete meridionale
del Sasso Manduino), ci porta alla forcella (o forcola) di Frasnedo, l’unica
porta naturale fra Val Codera e Valle dei Ratti. Un sentiero davvero suggestivo,
che non è segnato, se non nella prima
parte, neppure sulla carta IGM. Cominciamo, dunque, a salire, in un bosco
di betulle, sempre accompagnati dall’assidua e graditissima compagnia
dei segnavia bianco-rossi, superando un valloncello e raggiungendo una
prima baita solitaria (località Alla Valle, m. 1051). Procedendo
in direzione est, il sentiero aggira una formazione rocciosa (il tratto
è attrezzato da corde fisse ed allargato con dei tronchi), che
precede un secondo e più marcato vallone. I tratti esposti della
discesa nel vallone e della successiva risalita sono anch’essi protetti
da corde fisse.
Raggiunti lidi più tranquilli, proseguiamo fino ad incontrare una
radura con due nuove baite, quasi nascoste nel cuore del bosco (m. 1192).
Attraversiamo, nella successiva salita, una bella pineta, con diversi
tornanti, fino a raggiungere il limite inferiore dell’ultimo e più
aspro tratto, dove la pendenza si fa più accentuata e la traccia
più debole. Il sentiero, ora, serpeggia fra l’erba, che minaccia
sempre di mangiarselo di nuovo (dico di nuovo perché è stato
appena pulito nel luglio del 2006; se, però, non vi saranno interventi
successivi, prima o poi sarà sommerso dall’erba). Cominciamo
ad intuire ed intravedere la meta, costituita dalla sella posta sulla
verticale della direttrice di salita. Alla nostra destra sta un aspro
fianco roccioso, che mette paura solo a guardarlo. Qualche larice stroncato
dai fulmini rende l’atmosfera ancora più inquietante. L’ultimo
tratto della salita è anche il più faticoso, perché
la pendenza si fa davvero notevole; qualche sosta si impone e, guardando
alle spalle, riconosciamo le case di Cola, dominate dall’affilata
punta Redescala (m. 2304). I radi larici sparsi lungo il pendio sembrano
mostrarci tutta la loro solidarietà.
Alla fine, non senza aver pagato un copioso tributo di sudore al severo
vallone, nelle due ore di salita di salita, siamo alla sospirata forcella
di Frasnedo (m. 1662), dove il cartello giallo del Sentiero Life
sembra sorriderci, congratulandosi con noi per la perseveranza. 760 metri
circa di dislivello dividono il tracciolino dalla forcella, non uno scherzo!
Ora il dado è tratto: col piede sinistro siamo ancora in Val Codera,
con quello destro già in valle dei Ratti (o viceversa). Nessun
roditore in vista: la valle, infatti, deve il suo nome alla nobile famiglia
comasca dei Ratti, che, in passato, ne possedevano tutti gli alpeggi.
Una valle che ci mostra il suo versante meridionale, ricco di boschi e
di alpeggi. Una tranquilla discesa in scenari più gentili ci attende.
Nel primo tratto effettuiamo un lungo traverso a destra, restando poco
al di sotto del crinale, che propone, qui, lo spettacolo un po’
desolante di diversi scheletri di larice. Nel traverso attraversiamo un
corpo franoso e, dopo aver gettato un’ultima occhiata al lago di
Mezzola, entriamo in un bel bosco, intervallato da amene radure. Il sentiero
comincia a scendere, rimanendo approssimativamente sul crinale fra Valle
dei Ratti e Vallone di Revelaso, in direzione sud-ovest. Poi, appena prima
di una bella radura panoramica, sul tronco di un grande faggio troviamo
una ben visibile freccia che segnala il cambiamento di direzione, verso
sinistra. Una seconda segnalazione di deviazione si trova, sempre in bella
evidenza, su un masso. Inizia una discesa più decisa, che termina
alla parte alta di Frasnedo.
Due i sentieri praticabili e segnalati dai segnavia bianco-rossi. Suggerisco
quello che sta più a destra, leggermente più in basso: lo
si trova scendendo per un tratto quasi in diagonale verso sinistra (qui
la traccia di sentiero è piuttosto incerta), fino a trovare, aiutati
dai
segnavia, un sentiero marcato, che prosegue scendendo verso sinistra.
Su un masso troviamo anche il rassicurante quadratino azzurro con il logo
del progetto Life. Poco sotto, passiamo a valle di uno splendido bosco
di radi larici, che lasciano filtrare abbondante la luce del sole che
si stende, con un effetto di rara suggestione, su un tappeto di felci.
Difficile trattenere la tentazione di fermarsi e guardare.
Poi, superata una piccola radura, affrontiamo l’ultimo tratto, che
ci porta a monte delle case più alte di Frasnedo,
appena sopra la chiesetta dedicata alla Madonna delle Nevi (m. 1287).
In breve siamo al sagrato della chiesetta, sulla cui facciata, fra i santi
Rocco ed Antonio, si legge una dedicazione in latino, dalla quale ricaviamo
che il popolo di Frasnedo la fece erigere nel 1686 a perpetua memoria
dell’apparizione di fiori fra le nevi. La chiesetta è posta
in posizione rialzata, rispetto al corpo centrale del paese. Paese simpatico
davvero, Frasnedo, che si anima di vita nella stagione estiva, nonostante
i villeggianti debbano salire fin quassù da Verceia con un’ora
e mezza buona di cammino, in quanto la strada carrozzabile non accede
alla valle, ma si ferma ad una quota approssimativa di 600 metri. È
questo, come già detto, il motivo principale che ha conservato
alla valle un volto antico, pressoché intatto.
Termina qui la seconda tappa: il pernottamento si effettua presso un ostello
allestito per servire il Sentiero Italia (che giunge fin qui, anch’esso,
da Codera percorrendo, però, interamente il tracciolino e salendo
al paese lungo l’ultimo tratto della mulattiera Verceia-Frasnedo)
ed il Sentiero Life. Lo troviamo all’uscita del paese in direzione
dell’alta valle (la pista passa sotto la chiesa), nell’edificio
posto in corrispondenza del punto d’arrivo della teleferica. Per
informazioni al riguardo, però, è bene telefonare ai numeri
034344337 oppure
034344064: qualora, per qualsiasi motivo, l’ostello non fosse agibile,
è gioco-forza anticipare il “tappone ammazzagambe”,
comunque previsto per la terza giornata, a questa seconda giornata, proseguendo
nella salita al bivacco Primalpia (cfr. presentazione della terza giornata).
Se tutto va bene, invece, ecco il saldo della giornata: abbiamo superato
circa 900 metri di dislivello (fuori-programma esclusi: questi portano
il dislivello complessivo a circa 1200 metri), in 6 ore approssimative
(o 7, con i fuori-programma); lo sviluppo complessivo, infine, è
di circa 13 km.
Chi volesse ulteriori informazioni o aggiornamenti, può
rivolgersi all’ERSAF, a Morbegno (SO), tel. 02 67404.581, fax 02
67404.599, oppure all’Infopoint ERSAF, tel. 02-67404451 o 02-67404580;
può anche scrivere a oscar.buratta@ersaf.lombardia.it,
oppure a life@ersaf.lombardia.it.
Risulta utile anche la consultazione del sito Internet www.lifereticnet.it/italiano/home.htm
|
|
Difficoltà |
EE (escursionisti esperti) |
Dislivello |
mt. 900 |
Tempo |
6 h |
|
3a
Tappa - Da Frasnedo al rifugio Omio
Eccolo, il tappone ammazzagambe: la terza giornata del
Sentiero Life è di quelle toste, e prevede la traversata da Frasnedo
al rifugio Omio in Valle dell’Oro, passando per il bivacco Primalpia,
il passo omonimo, l’alta Valle di Spluga, il passo del Calvo e la
Val Ligoncio.
Si lascia, dunque, Frasnedo, in direzione dell’alta
valle, sfruttando prima un tratturo, poi un sentiero che, rimanendo sulla
destra orografica della valle (sinistra, per chi sale), scende ai prati
di Corveggia (m. 1221), dai quali si gode di un buon
colpo d’occhio sull’alto Lario, ed ai quali giunge anche un
sentiero più basso, che passa per Moledana. Addentrandoci ancor
più nella valle, raggiungiamo, in breve, un bivio (anzi, trivio,
considerando la direzione dalla quale veniamo: questo giustifica le tre
frecce bianco-rosse in evidenza su un masso) con alcuni cartelli della
Comunità Montana Val Chiavenna, che indicano sulla destra il sentiero
A1, per l’alpeggio Nave (dato a 45 minuti), l’alpeggio Lavazzo
(dato ad un’ora e 30 minuti) ed il passo del Culmine (dato a 2 ore
e 15 minuti). I cartelli segnalano anche che il medesimo sentiero porta,
in 2 ore e 25 minuti, al monte Bassetta (sul crinale fra Valle dei Ratti
e Costiera dei Cech), dal quale si scende al maggengo di Foppaccia (dato
a 3 ore e 25 minuti), per poi tornare, alla fine, a S. Fedele di Verceia
(tempo complessivo: 4 ore e 30 minuti). Un ottimo circuito escursionistico,
per chi parta da Verceia e sia ottimo camminatore.
Ma a noi, per ora, interessa l’altro sentiero, quello di sinistra,
che porta, in 3 ore, al rifugio Volta. Troviamo, a questo bivio, anche
un cartello dell’A.N.P.I., che illustra la lunga traversata effettuata, per sfuggire all'accerchiamento da parte delle forze nazifasciste,
nel tardo autunno del 1944 dalla 55sima brigata partigiana Fratelli
Rosselli, da Introbio, in Valsassina, alla Val Gerola e di qui alla Costiera dei Cech, con successiva traversata alla Valle dei Ratti ed alla Val Codera e conclusiva discesa a Bondo (Svizzera) per la bocchetta della Teggiola. Nella seconda giornata del Sentiero Life ed in questa
terza, dunque, ricalchiamo (in senso inverso) le orme di parte di questa memorabile traversata
(con la non lieve differenza della buona stagione). All’alpe Primalpia
le direttrici si separeranno: per salire al passo di Visogno, infatti,
bisogna salire a destra, mentre noi prenderemo a sinistra. Ma intanto all’alpe dobbiamo ancora arrivarci.
Un cartello con la scritta cancellata, sempre a questo bivio, sta ad indicare
che la direzione per la capanna Volta è, per ora, anche quella
per il bivacco Primalpia.
Di nuovo in cammino, dunque, prendendo a sinistra. Dopo aver superato
una cappelletta, eccoci ai prati di Tabiate (m. 1253),
dove, su una baita, troviamo una targhetta azzurra con il logo “Life”.
Addentrandosi ancor più nella media valle, intorno ai 1400 metri
incontriamo un nuovo bivio, al quale bisogna prestare un po’ di
attenzione. Dal sentiero si stacca, sulla destra, un secondo sentiero
che scende ad un ponte sul torrente della valle. Su un masso una freccia
indica il bivio; in direzione del sentiero principale è aggiunta
la scritta, difficilmente leggibile, “Volta”: l’indicazione
va intesa nel senso che proseguendo su questo sentiero, cioè rimanendo
ancora per un lungo tratto sul lato sinistro (per noi) della valle, saliamo
verso il rifugio Volta del CAI di Como, posto, a 2212 metri, sul limite
dell’alpe Talamucca, nella parte centrale dell’alta valle.
Fin qui, tutto bene. Tuttavia sul
medesimo masso si trova la targhetta con il logo “Life”, il
che potrebbe indurci a credere che il Sentiero Life prosegua in questa
medesima direzione, e tocchi tale rifugio.
Non è così: dobbiamo scendere al ponte alla nostra destra,
che ci porta sul lato opposto della valle, dove troviamo una fascia di
prati con alcune baite. Un cartello che punta in direzione del ponte ha
la scritta cancellata (vi si leggeva l’indicazione per il bivacco
Primalpia). Probabilmente in futuro le indicazioni saranno più
chiare. Intanto, raggiunti i prati, dobbiamo salire verso il limite superiore,
più o meno sulla verticale rispetto al ponte, dove parte, segnalato
dal cartello giallo del Sentiero Life posto su un masso, il sentiero segnalato
che, dopo un primo traverso verso destra, piega a sinistra, superando
alcuni torrentelli, nella cornice di un bel bosco di larici, e raggiunge
l'alpe di Primalpia bassa, a m. 1678, caratterizzata da un grande larice
solitario al centro del prato. Approssimativamente sopra la verticale
del larice, leggermente a sinistra, il sentiero riparte, e, dopo un breve
tratto a destra, riprende la direttrice verso sinistra (est), sempre nella
cornice del bosco di larici.
Attraversate alcune radure, incontriamo i primi ruderi delle baite dell’alpe
di Primalpia alta. Incontriamo, quindi, un cartello che indica la deviazione
per l’alpe Nave e l’alpe Piempo, deviazione che ignoriamo.
Superato un ultimo torrentello, eccoci, infine, al simpatico edificio
del bivacco Primalpia,
recentemente edificato, a 1980 metri. L’interno è accogliente:
ci sono 18 brandine, disposte in letti a castello, c’è l’acqua
corrente, c’è una stufa a gas ed un focolare, c’è
la corrente generata da un pannello fotovoltaico.
C’è anche un simpatico cartello, con una scritta che recita
così: “Il pattume se si scende a valle portarlo con sé,
perché il camion non passa! Grazie!” Qualora fossimo nella
necessità di fermarci qui, ripaghiamo la generosa iniziativa di
chi ha voluto questo prezioso punto di appoggio con il massimo rispetto
per la struttura e magari con un contributo riconoscente. Gettato un ultimo
colpo d’occhio al circo terminale dell’alta Valle dei Ratti
(il panorama è davvero superbo), dobbiamo rimetterci in marcia
per raggiungere il passo di Primalpia, seguendo i segnavia bianco-rossi
lungo il sentiero, abbastanza evidente, che punta ad una baita solitaria,
sul lato opposto dell’alpe, a nord-est rispetto a noi. In realtà
la solitudine dell’alpe è apparente più che reale:
d’estate viene ancora caricata, per cui probabilmente ci sentirà
di ascoltare il rallegrante scampanio delle mucche, e magari anche il
meno rallegrante abbaiare del cane da pastore (chissà perché
questi animali considerano gli escursionisti dei nemici mortali dei capi
di bestiame che hanno imparato a sorvegliare: nel loro immaginario, probabilmente,
costoro ritemprano le forze divorandosi innocenti vitelli rapiti alla
loro mandria).
In breve, eccoci alla baita, che ospita gli alpeggiatori, sempre disposti
a scambiare qualche parola con questi curiosi umani itineranti, e ad offrire
preziose indicazioni. Oltre la baita, il sentiero prosegue, salendo leggermente
e puntando ad un crinale che separa l’alpe dal vallone che dovremo
sfruttare per salire al passo di Primalpia. Raggiunto il crinale erboso,
in corrispondenza di un grande ometto, si apre, di fronte ai nostri occhi,
di nuovo, più vicino, l’ampio scenario dei pascoli dell’alpe
Talamucca. Riconosciamo anche, facilmente, il rifugio Volta, che è
l’ultimo edificio, a sinistra, nel circo dell’alta valle.
Purché la giornata di buona,
o almeno discreta. Purtroppo la Valle di Ratti, per la sua vicinanza al
lago di Como, è spesso percorsa da correnti umide, che generano
nebbie anche dense, le quali ne velano la bellezza davvero unica. Se,
quindi, potremo godere di una giornata limpida, consideriamoci fortunati.
Scendiamo, ora, per un breve tratto sul crinale, fra erbe e qualche roccetta,
fino ad un masso, sul quale il segnavia, accompagnato dalla targhetta
azzurra con il logo “Life”, indica una svolta a destra. Dobbiamo,
ora, prestare un po’ di attenzione, perché il sentiero, volgendo
decisamente a destra, ci porta ad una breve cengia esposta, per la quale
scendiamo al canalone che adduce al passo. Le corde fisse ci aiutano nella
breve discesa, che sfrutta dapprima uno stretto corridoio nella roccia,
poi una traccia di sentiero esposta. Con le dovute cautele, eccoci sul
fondo del canalone, nel quale scorre il modesto torrentello alimentato
dai laghetti superiori. Seguendo i segnavia, lo attraversiamo e cominciamo
a risalire, sul lato sinistro (per noi) del canalone, un ampio versante
erboso disseminato di massi, ricongiungendoci con il Sentiero Italia Lombardia
nord 3. Il passo sembra lì, a pochi minuti di cammino.
Ma, come spesso accade in questi casi, quel che ci sembra un valico è
in realtà solo la soglia di un gradino superiore. La delusione
della scoperta, però, dura ben poco, perché, oltre la soglia,
ci appare, piccola perla di immenso valore, il laghetto di Primalpia (m.
2296), a monte della quale si trova la baita al Lago (m. 2351). Ecco uno
di quegli angoli di montagna solitaria e silenziosa che, da soli, ripagano
di ogni fatica. Passando a sinistra del laghetto, puntiamo alla selletta
che ci sembra essere, finalmente, il passo agognato. Ed invece, per la
seconda volta, raggiunta la selletta siamo alle soglie di un ultimo gradino,
una conca di sfasciumi che ospita un secondo e più piccolo laghetto
(m. 2389), con un nevaietto che rimane anche a stagione inoltrata.
Il passo, questa volta, è davvero davanti a noi: qualche ultimo
sforzo e, salendo sul fianco destro del canalino terminale, eccoci, finalmente,
al passo di Primalpia (m. 2476). Un passo che regala
un’emozione intensa, perché apre un nuovo, vasto ed inaspettato
orizzonte: davanti a noi, in primo piano, l’alta Valle di Spluga,
ma poi, oltre, un ampio scorcio della piana della media Valtellina, incorniciato,
sulla sinistra, dai Corni Bruciati (protagonisti dell’ultima giornata
del Sentiero Life), sul fondo dal gruppo dell’Adamello e, sulla
destra, dalla catena orobica, che mostra le sue più alte vette
della sezione mediana. Valeva davvero la pena di giungere, almeno una
volta nella vita, fin qui: ecco un pensiero che non potremo trattenere.
Qui, di nuovo, Sentiero Life e Sentiero Italia Lombardia nord 3 si separano:
il secondo, infatti, effettua la lunga discesa della Valle di Spluga,
passando per i suoi splendidi laghetti (dal passo si vedono solo quelli
più piccoli, inferiori, mentre resta nascosto il più grande
lago superiore).
Il Sentiero Life, invece, rimane in quota, effettuando una traversata
dell’alta Valle di Spluga che, passando per il passo gemello della
bocchetta di Spluga, sale al passo del Calvo. Dobbiamo, quindi, innanzitutto
portarci alla bocchetta dello Spluga, prestando attenzione a non imboccare
il sentiero che scende sul fianco destro della valle omonima, ma portandoci
a sinistra del passo, dove un sentierino scende per un tratto sul fianco
della testata della valle, per poi congiungersi con una traccia che effettua
la traversata
alla bocchetta. Qualora perdessimo il sentierino, scendiamo per un breve
tratto lungo il Sentiero Italia: troveremo, in basso rispetto al sentiero,
sulla sinistra, un masso, sul quale è segnalata la triplice direttrice
per Frasnedo (cioè per il passo di Primalpia, che abbiamo appena
lasciato), per la Val Masino (Sentiero Italia) e per la capanna
Volta (è la direttrice che ci interessa, a sinistra). Nella
medesima direzione, troviamo, poi, un secondo masso, con una freccia nera,
in campo bianco, e con la scritta “Cap. Volta”, affiancata
da un segnavia bianco-rosso e dalla targhetta azzurra con il logo “Life”:
è questa la direzione da prendere (a sinistra). Non possiamo, dunque,
sbagliare.
Il sentierino taglia il fianco dello sperone montuoso che separa i due
valichi. Superata una breve fascia di massi, guadagniamo una posizione
dalla quale è possibile ammirare un ampio scorcio del lago superiore
di Spluga, che, purtroppo, dobbiamo lasciare qualche centinaio di metri
più in basso rispetto a noi (è a 2160 metri, mentre noi
stiamo oltrepassando la quota 2500), ma che, anche da qui, ci regala qualcosa
del fascino profondo e selvaggio delle sue scure acque. Si tratta di un
lago che merita un’attenta considerazione, anche perché è
il più grande dell’intera Val Masino (valle ricchissima di
scenari alpini incomparabili, ma assai povera di laghi: menzionati il
lago di Spluga, appunto, e quello, in Val Terzana, di Scermendone, li
abbiamo praticamente menzionati tutti). Sullo sfondo, le più alte
cime della catena orobica.
Oltrepassato un masso che segnala un bivio (a destra si scende alla baita
Spluga, nei pressi del già citato lago, a sinistra si prosegue
per la capanna Volta), al quale prendiamo a sinistra, eccoci, alla fine,
alla bocchetta di Spluga (m. 2522), dove, su un masso,
ritroviamo la targa gialla del Sentiero Life. Amplissimo il panorama,
non solo in direzione della media Valtellina, ma anche,
sul lato, opposto, in direzione della media Valle dei Ratti e dell’alto
Lario. Dobbiamo, ora, stare attenti (soprattutto nell’eventualità,
non remota, di foschia e visibilità limitata) a non seguire le
indicazioni per la capanna Volta, che ci portano a scendere alla bocchetta
verso sinistra (tali indicazioni – segnavia rosso-bianco-rossi -
si giustificano in riferimento ad un percorso che, dalla bocchetta, scende
in alta Valle dei Ratti e di qui al rifugio Volta). Dobbiamo, invece,
rimanere a destra: raggiunta, sul lato opposto della bocchetta, una grande
placca di granito con un segnavia rosso-bianco-rosso sulla sinistra, in
segnavia bianco-rosso affiancato dalla targhetta azzurra con il logo “Life”
sulla destra, troviamo il punto nel quale le due vie si separano.
Noi prendiamo a destra, senza però perdere quota, ma cominciando
a salire a ridosso delle grandi placche di granito che scendono dalla
testata nord-occidentale dell’alta Valle di Spluga. Incontriamo
alcuni segnavia rosso-bianco-rossi, poi un grande quadrato bianco, e,
ancora, segnavia rosso-bianco-rossi sul fianco della testata. Il sentiero
sale decisamente, snodandosi fra gli ultimi magri pascoli, per poi raggiungere
la sterminata e caotica zona di sfasciumi che riempie interamente l’angolo
nord-occidentale dell’alta valle. Ora possiamo, guardando in basso,
alla nostra destra, vedere il lago superiore di Spluga nella sua interezza.
Ancora più suggestiva ci appare, sullo sfondo, la fuga di quinte
delle valli orobiche (sezione centro-orientale). Terminano i pascoli e
si fa meno accentuata, ma non meno faticosa, la salita: dobbiamo, infatti,
ora districarci fra massi di ogni dimensione, con pazienza e cautela,
seguendo la direzione dettata dagli abbondanti segnavia. La cautela è
d’obbligo: siamo ormai stanchi, e la possibilità di procurarci
una storta, o peggio, anche su un terreno apparentemente non pericoloso
è dietro l’angolo. Alle nostre spalle, intanto, si rende
ora ben visibile, sull’angolo sud-occidentale della valle, la cima
del Desenigo (m. 2845).
Ma dove andremo a finire? Dov’è il passo del Calvo che ci
porterà alle soglie della Val Ligoncio? Se guardiamo davanti a
noi, vedremo una larga depressione, apparentemente accessibile, dietro
la quale occhieggiano, furbi ed un po’ impertinenti, i Corni Bruciati.
Non è quello il passo. Si trova più a sinistra, ed è
costituito da un intaglio appena distinguibile su una più modesta
depressione, riconoscibile per la grande e liscia placca giallastra sottostante.
Se poi queste indicazioni non bastassero a capire qual è la meta,
poco male: con un po’ di pazienza, seguendo i segnavia ed alcuni
grandi ometti, ci si arriverà. Dietro la bocchetta dello Spluga
appare, ad un certo punto, anche l’inconfondibile corno del monte
Legnone: ce lo ricordiamo, ha dominato lo scenario della prima giornata
del sentiero. Alla nostra sinistra, le formazioni gotiche e tormentate
della testata nord-occidentale della Valle di Spluga. Un’avvertenza:
se, per qualunque motivo, ci trovassimo nella necessità di scendere
a valle, cioè di scendere dalla Valle di Spluga,
non scegliamo di scendere, a vista, attraversando la fascia di sfasciumi
in direzione del lago: la fascia è, infatti, chiusa dal salto di
qualche centinaia di metri di rocce lisce, arrotondate e ripidissime.
Dopo quasi un’ora di traversata, eccoci, infine, alla base del passo:
un grande cerchio bianco contornato di rosso ci segnala che inizia un
tratto esposto e potenzialmente pericoloso. L’ultimo tratto della
salita, infatti, sfrutta una cengia a ridosso del fianco roccioso di destra
del versante (le corde fisse assistono questo passaggio), poi uno stretto
e ripido corridoio erboso (anche qui le corde fisse sono di grande aiuto),
ed infine un’ultima brevissima cengia (sempre corde fisse), che
ci porta non direttamente all’intaglio del passo, ma ad uno stretto
corridoio che lo precede. Ora vediamo l’intaglio, alla nostra sinistra
(su una placca rocciosa sono assicurate la targa gialla del Sentiero Life
ed una scatola metallica), ma dobbiamo prestare attenzione anche nell’ultimo
passaggino, per evitare di cadere in un singolare buco che si spalanca,
improvviso, alla nostra sinistra, sotto un grande masso.
Eccoci, infine, ai 2700 metri del passo del Calvo. Se
il passo di Primalpia emoziona, quello del Calvo toglie addirittura il
fiato, perché spalanca, improvvisa e sublime, di fronte a noi,
l’intera compagine delle cime del gruppo del Masino e del monte
Disgrazia. Da sinistra, l’occhio esperto riconosce, da sinistra,
i pizzi dell’Oro (m. 2695, 2703 e 2576), sulla testata della valle
omonima, la cima del Barbacan (m. 2738), sulla costiera che separa la
Valle dell’Oro dalla Val Porcellizzo, le cime d’Averta (m.
2778, 2861), il pizzo Porcellizzo (m. 3075), la punta Torelli (m. 3137),
i pizzi Badile (m. 3308) e Cengalo (3367), che spiccano, per mole ed altezza,
sulla testata della Val Porcellizzo, i pizzi Gemelli (m. 3221 e 3259),
i pizzi del Ferro occidentale (o cima della Bondasca, m. 3267), centrale
(m. 3287) ed orientale (m. 3200), sulla testata della valle omonima, la
cima di Zocca (m. 3175), la punta Allievi (m. 3123), la cima di Castello
(m. 3386), la punta Rasica (m. 3305), le celeberrime cime della Valle
di Zocca, ed ancora i pizzi Torrone occidentale (m. 3349), centrale (m.
3290) ed orientale (m. 3333, riconoscibile per il sottile ago alla sua
sinistra), sulla testata della valle omonima, il monte Sissone (m. 3331,
le cime di Chiareggio (m. 3203, 3107 e 3093) ed il monte Pioda (m. 3431),
sulla testata della Val Cameraccio, ed infine il monte Disgrazia (m. 3678),
che signoreggia per mole ed eleganza su tutte le altre cime, ed ancora
loro, i Corni Bruciati (m. 3097 e 3114), sulla testata della Valle di
Preda Rossa, lo scenario conclusivo del Sentiero Life.
È, questo, il punto più alto ed emotivamente più
forte dell’intero sentiero. Resta l’ultima discesa, in Val
Ligoncio e Valle dell’Oro, che ha come meta il rifugio Omio, dove
si conclude questa terza giornata. Siamo stanchi, una certa tendenza alla
rilassatezza si può fare subdolamente strada, complice il pensiero
ingannevole: “il più è fatto!” Invece dobbiamo
rimanere concentrati ed attenti, perché il primo tratto della discesa
sfrutta la lunga ed esposta cengia del Calvo (battuta da cacciatori, molto
prima che da escursionisti), adeguatamente
attrezzata ma pur sempre da affrontare con la debita cautela e da evitare
in presenza di neve o dopo abbondanti precipitazioni (tanto per fare un
paragone forse familiare a diversi lettori, assomiglia un po’ alla
discesa dal passo del Barbacan sud- est in Val Porcellizzo, lungo il Sentiero
Risari, da molti utilizzato come prima trappa di un abbreviato Sentiero
Roma). Ma dove ci troviamo esattamente? Ora, guardando una cartina ci
accorgiamo che sul punto di incontro fra le valli di Spluga, Ligoncio
e dei Ratti è posta la cima del Calvo, o monte Spluga (m. 2967),
che resta, nascosto, alla nostra sinistra. In realtà le cime del
Calvo sono due: la già citata è quella occidentale, e ve
n’è una seconda, orientale (m. 2873). Ebbene, la cengia che
sfrutteremo taglia, in diagonale, proprio in fianco nord-orientale di
questa seconda cima, dalla base massiccia. Dopo questi chiarimenti geografici,
cominciamo a scendere.
La traccia di sentiero segue la lunga cengia, in gran parte assistita
da corde fisse, sempre molto utili. Scendiamo con calma, assicurandoci
alle corde fisse. Sulla nostra destra si apre il selvaggio circo terminale
della Val Ligoncio (la sezione meridionale di quella che genericamente
viene denominata Valle dell’Oro), segnata dai repulsivi salti delle
cime che la incorniciano. Distinguiamo anche, più a sinistra, la
spaccatura della bocchetta di Medaccio, a destra della punta omonima,
per la quale si può passare dalla Val Ligoncio alla Valle della
Merdarola. Dopo un ultimo canalino di terriccio scivoloso ed una brevissima
risalita, eccoci, alla fine, alla base del passo. Alla nostra sinistra
vediamo un nevaietto che rimane per l’intera stagione (può
servire come punto di riferimento per chi voglia riconoscere la cengia
del Calvo guardando dalla Omio). Proseguiamo al discesa, un po’
faticosamente e senza allentare l’attenzione, superando una fascia
di grandi massi. Alle nostre spalle si fa più riconoscibile il
poderoso fianco roccioso della cima del Calvo
orientale. Alla sua destra, dopo una curiosa sequenza di irti spuntoni,
defilata, la cima del Calvo occidentale, sulla verticale del nevaietto.
La discesa prosegue, seguendo i segnavia rosso-bianco-rossi, fino ai primi
pascoli. Dopo un masso che presenta anche una croce rossa, attraversiamo
un torrentello che scende dal nevaietto e proseguiamo nella discesa, in
diagonale, verso sinistra. Dopo un buon tratto di discesa, fermiamoci
e volgiamo lo sguardo: le due cime del Calvo sono ancora più riconoscibili,
e si distingue anche, sul fianco di quella orientale, la cengia che abbiamo
sfruttato scendendo dal passo del Calvo. In direzione opposta, al centro
della valle, si distingue il rifugio
Omio.
Ed è lì che, alla fine, ci porta il sentiero, che si snoda
fra i pascoli della Val Ligoncio, superando diversi torrentelli e balze.
Nell’ultimo tratto il sentiero intercetta i due rami del sentiero
Dario di Paolo, che salgono ai passi della Vedretta, per il quale si scende
nell’alta Valle dei Ratti, e Ligoncio, per il quale si scende in
valle d’Arnasca.
Al rifugio Omio (m. 2100) ci godiamo, alla fine, il meritato riposo, dopo
8 ore di cammino: il dislivello in altezza superato è, infatti,
ragguardevole (m. 1600 circa), come lo è lo sviluppo (km. 18 circa).
Prima di chiudere questa relazione, vale la pena di suggerire una possibile
variante del Sentiero Life, utile per chi disponga di
soli cinque giorni, invece dei sei necessari. Questa variante prevede
che la prima giornata sia dedicata alla salita al bivacco Primalpia da
Verceia, e la seconda alla traversata Primalpia-Omio (sfruttando
l’itinerario già descritto). È necessario, quindi,
solo illustrare come effettuare la salita al bivacco da Verceia. Una premessa,
però: questa variante non tradisce lo spirito del Sentiero Life,
perché parte pur sempre da un paese che si affaccia sul lago di
Mezzola, non lontano dal Pian di Spagna. Oltretutto, il 3 e 4 settembre
2005 la Carovana di Legambiente, percorrendo una versione “ridotta”
del sentiero in due sole giornate, ha scelto di articolarle così:
Verceia-Bivacco Primalpia e Bivacco Primalpia-Rifugio Omio.
Dopo
questa excusatio non petita, vediamo come procedere. Portiamoci, con l’automobile,
alla parte alta di Verceia, sul lato sinistro, cercando le indicazioni
per la Valle dei Ratti. Una stradina che passa per la frazione di Vico
termina, dopo un ultimo tratto sterrato, ad una quota approssimativa di
600 metri. Qui possiamo parcheggiare, negli spazi consentiti, ed imboccare
la segnalata mulattiera per la Valle dei Ratti e per Frasnedo.
Una mulattiera molto bella, riposante, che taglia, a quota 900, il tracciolino,
passa appena sotto il bel nucleo di Càsten e porta, alla fine,
a Frasnedo. Come proseguire da Frasnedo al bivacco Primalpia lo abbiamo
già raccontato. Chi volesse guadagnare una quarantina di minuti
può, però, scegliere questo itinerario alternativo, che
rimane più basso e taglia fuori Frasnedo. Giunto al tracciolino,
lo imbocca verso destra, fino alla diga di Moledana (attenzione
al trenino a scartamento ridotto!). Qui attraversa il camminamento della
diga posta a monte dell’impressionante ed orrida forra del torrente
ed imbocca il sentiero sul lato opposto della valle. Giunto ben presto
ad un trivio, segue le indicazioni per Moledana (sinistra), ignorando
quelle per Verceia (destra) e per la Foppaccia (destra, salendo).
Giunto alle poche case di Moledana, controlla il tempo,
sfruttando un simpaticissimo termometro a corda (funziona così:
corda secca = bel tempo, corda bagnata = pioggia, corda rigida = freddo,
corda mossa = vento, corda invisibile = nebbia o bere meno, no corda =
ce l’hanno
rubata). Poi, ignorando il cartello che segnala, sulla destra, il sentiero
per l’alpe Nave, prosegue diritto, fino ad un ponte, sfruttando
il quale torna sul lato sinistro (per chi sale) della valle, in corrispondenza
di alcune baite. Di qui prosegue nella salita e, ignorata una deviazione
a sinistra per Frasnedo ed una deviazione a destra, raggiunge, alla fine,
ai prati di Corveggia. L’itinerario successivo
è il medesimo descritto sopra.
Questa variante comporta un dislivello in salita di circa 1400 metri,
e richiede 4-5 ore di cammino. Il suo vantaggio non è solo quello
di abbreviare di un giorno il Sentiero Life, ma anche quello di rendere
decisamente meno faticosa la seconda (terza) giornata, che si conclude
al rifugio Omio.
Chi volesse ulteriori informazioni o aggiornamenti, può
rivolgersi all’ERSAF, a Morbegno (SO), tel. 02 67404.581, fax 02
67404.599, oppure all’Infopoint ERSAF, tel. 02-67404451 o 02-67404580;
può anche scrivere a oscar.buratta@ersaf.lombardia.it,
oppure a life@ersaf.lombardia.it.
Risulta utile anche la consultazione del sito Internet www.lifereticnet.it/italiano/home.htm
|
|
Difficoltà |
EE (escursionisti esperti) |
Dislivello |
mt. 1600 |
Tempo |
8 h |
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4a
Tappa - Dal rifugio Omio a S. Martino
La quarta giornata del Sentiero Life, così come
la quinta, si svolge interamente in Val Masino. Essa prevede un itinerario
di impegno medio-basso, su terreno tranquillo, e ci consente di recuperare
energie dopo il tour de force della terza giornata, ed in vista di quello
dell’ultima. Può anche costituire un’escursione a se
stante (in questo caso, però, la partenza è ai Bagni di
Masino), che si sviluppa su sentieri poco noti, consentendo la scoperta
di angoli insospettati anche a chi conosce bene la Val Masino. Ecco, in
sintesi, il percorso: dalla capanna Omio si scende al Pian del Fango,
seguendo il classico sentiero percorso dagli escursionisti che la raggiungono
salendo dai Bagni di Masino, poi lo si lascia per imboccare il sentiero
che conduce all’alpe Sceroia ed al pianone della Val Porcellizzo;
percorso interamente il bordo del pianone, si scende verso i Bagni per
il sentiero utilizzato da chi sale al rifugio Gianetti, lasciandolo però
alla Corte Vecchia ed imboccando il vecchio sentiero di collegamento fra
Val Porcellizzo e Val di Mello, che passa per il Brasco; raggiunto l’imbocco
della Val di Mello, si scende per il pernottamento a San Martino.
Lasciamo, dunque, il rifugio Omio, dedicato a quell’Antonio
Omio che morì scalando la punta Rasica, in Valle di Zocca, il 16
settembre 1935. Prima di metterci in cammino, però, gettiamo un
ultimo sguardo al panorama stupendo di cui si gode dal rifugio. Guardiamo
innanzitutto alle sue spalle, verso ovest. Sulla testata della Valle dell’Oro
possiamo distinguere, sul limite di sinistra (sud), la cima del Calvo
occidentale, un po’ defilata, ma riconoscibile come cima più
elevata di questo gruppo, sul vertice sud-occidentale della valle (m.
2967). Alla sua sinistra, e a sinistra di un nevaietto, la più
poderosa mole della cima del Calvo
orientale (m. 2873), che mostra la sua ampia parete nord-orientale, tagliata
in diagonale dalla cengia del Calvo, di cui conserviamo fresca memoria.
Più a sinistra ancora, ecco la costiera che separa la Val Ligoncio
dalla Valle della Merdarola, e che propone, dopo il netto intaglio della
bocchetta di Medaccio (m. 2303), le affilate cime della punta Fiorelli
(m. 2391, denominata così in onore della guida Giovanni Fiorelli,
che la salì per primo, insieme al cliente C. Savonelli, nel 1901)
e della punta Medaccio (m. 2350). Alle spalle della costiera, scorgiamo
alcune delle cime della Merdarola, testata dell’omonima valle, sopra
i Bagni di Masino. Continuando in quella carrellata in senso antiorario,
cioè verso sinistra, scorgiamo appena, ad est, le più alte
cime delle Orobie centrali, e di seguito, quelle della costiera Remoluzza-Arcanzo,
che separa la Valle di Preda Rossa dalla Val di Mello.
Dietro questa costiera, quali cime occhieggiano? Manco a dirlo, sempre
loro, i Corni Bruciati (m. 3097 e 3114); alla loro sinistra, si intravede
il monte Disgrazia (m. 3678). Poi, ecco la poderosa costiera che dal pizzo
del Ferro occidentale scende alla cima del Cavalcorto (m. 2763). Segue,
a nord, in primo piano, una terza costiera, quella del Barbacan, che separa
la Valle dell’Oro dalla Val Porcellizzo. È ben difficile
distinguere a vista dove si collochi lo stretto intaglio del passo Barbacan
sud-est, sul sentiero Risari che collega i rifugio Omio e Gianetti. È,
invece, facilmente riconoscibile, sul limite di sinistra della costiera,
la cima del Barbacan (m. 2738). Segue, a nord-ovest ed ad ovest, la sequenza
che propone l’affilata ed esile punta Milano (m. 2610), il passo
dell’Oro ed i pizzi dell’Oro (m. 2653, 2703 e 2695). Quasi
sulla verticale del rifugio, leggermente a sinistra, si riconosce la larga
sella del passo Ligoncio (m. 2575): non si sospetterebbe, guardando da
qui, che oltre la sella non si trova un declivio abbordabile come quello
in Valle dell’Oro, ma un vertiginoso
salto di granito (il passo vero e proprio è costituito, sul versante
della valle d’Arnasca, laterale della Val Codera, da una stretta
cengia esposta che parte dal bordo di destra della depressione e percorre
per lungo tratto il fianco roccioso della valle). Ecco, poi, le due cime
di maggior rilievo ed interesse della valle, la punta della Sfinge (m.
2802, che mostra di qui il profilo che ne giustifica la denominazione)
ed il pizzo Ligoncio (m. 3033), dal profilo un po’ tozzo (pizzo
bifronte: sul versante opposto, della valle d’Arnasca, cambia nome
– Lis d’Arnasca – e profilo – un vertiginoso e
repulsivo salto di granito -). A seguire, dopo l’intaglio del passo
della Vedretta (m. 2840, per il quale si scende in alta Valle dei Ratti),
si osserva la serrata successione dei pizzi della Vedretta (m. 2907) e
Ratti (m. 2919). Alla loro sinistra, infine, rieccoci alla cima del Calvo
occidentale.
In cammino, ora. Non imbocchiamo il sentiero che sale gradualmente ai
passi dell’Oro e del Barbacan sud-est, ma quello che scende decisamente
verso i Bagni di Masino, superando alcune balze e grandi placche arrotondate.
Alla nostra sinistra, ma anche sul percorso, potremo osservare qualche
capo di bestiame: l’alpe dell’Oro, infatti viene ancora caricata,
ma il numero dei bovini è ridotto oggi a circa un decimo rispetto
ai 400 ed oltre capi che un tempo rendevano l’alpe brulicante di
vita. Con uno sforzo di immaginazione possiamo figurarci il diverso aspetto
di un alpeggio caricato da tanti capi. Superata anche la casera dell’Oro
(m. 1767), il sentiero piega leggermente a sinistra, supera un torrentello
e raggiunge
una fascia di grandi massi, scesi dal fianco della costiera del Barbacan
nella gigantesca frana del 1963, che uccise non solo numerosi capi di
bestiame, ma anche un pastore. Sotto il più grande di questi massi
è stato ricavato anche un ricovero, a testimonianza della durezza
delle condizioni di vita in alpeggio.
Oltrepassato il masso, ad una quota approssimativa di 1700 metri, il sentiero
si immerge in una fresca pineta, proseguendo nella discesa verso est,
fino al Pian del Fango (m. 1590), una radura che deve
il suo nome alla natura acquitrinosa del terreno. La radura apre uno scorcio
panoramico intesso ed assai interessante: guardando a sinistra, appare
un suggestivo spaccato della testata della Val Porcellizzo, che va dal
monte Porcellizzo, a sinistra (m. 3075) agli inconfondibili pizzi Badile
(m. 3308) e Cengalo (m. 3367), fino alla cima occidentale dei pizzi Gemelli
(m. 3259). Lo scorcio è incorniciato dal limite orientale della
costiera del Barbacan, a sinistra, e dalla solitaria val Sione, intagliata
nella costiera del Cavalcorto, a destra. Al Pian del Fango troviamo la
baita omonima, presso la quale si trova, su un masso l’indicazione
(targa gialla del Sentiero Life) della deviazione che dobbiamo operare,
a sinistra, lasciando il sentiero per i Bagni di Masino.
Guidati dai segnavia bianco-rossi, ci immergiamo, dunque, in una fresca
pineta, procedendo in direzione nord. La traccia è stretta ma ben
marcata, ed esce dal bosco scendendo, fra alcuni massi, per un tratto,
fino al punto di guado di un torrentello che scende dal selvaggio ramo
settentrionale della Valle dell’Oro. Sul lato opposto troviamo una
radura, dove il sentiero, con traccia assai
debole, volge a sinistra e comincia a salire, ripido, proponendo alcuni
tornanti, prima di volgere a destra, rientrando nella pineta. Poi gli
alberi si diradano, e raggiungiamo l’ampio anfiteatro dell’alpe
Sceroia, dietro la quale emergono, come da un mare di verde intenso, i
grigi giganti della testata della Val Porcellizzo.
Seguendo i segnavia, raggiungiamo il limite inferiore dell’alpe
e volgiamo a sinistra, salendo, a zig-zag, fino alla casera di Sceroia
bassa (m. 1498). Piegando a destra ed assumendo di nuovo la direttrice
verso nord, proseguiamo nella salita graduale, circondati da pascoli e
da qualche rado larice. Un tratto scalinato ci permette di superare l’ultimo
gradino che ci nasconde alla vista il cuore dell’alpe Sceroia,
dove si trova il baitone di quota 1961. Anche quest’alpe non è
ancora deserta (attenzione, quindi, all’immancabile cane da pastore),
nonostante il numero dei capi di bestiame sia assai ridotto rispetto al
passato. È, questo, un angolo della Val Porcellizzo sconosciuto
ai più, in quanto rimane nascosto a coloro che salgono al rifugio
Gianetti per il percorso classico. Dietro il baitone, ammiriamo il familiare
succedersi delle imponenti cime della testata, i pizzi Badile, Cengalo,
Gemelli e del Ferro occidentale (o cima della Bondasca).
Il sentiero passa a fianco del baitone e prosegue salendo ad un dosso
boscoso che nasconde l’alpe alla vista di coloro che transitano
sul sentiero per la capanna Gianetti, per poi scendere al limite inferiore
del pianone della Val Porcellizzo, sul lato opposto del torrente rispetto
a quello raggiunto dal sentiero per la Gianetti. Una serrata serie di
massi infissi nel terreno e corredati da segnavia bianco-rossi dettano
il percorso fino al ponte sul torrente, dove il Sentiero Life si immette,
per un breve tratto, nel sentiero per la Gianetti.
Non attraversiamo, dunque, il ponte verso destra, ma restiamo a sinistra
e, per un breve tratto, saliamo sul sentiero: al primo tornante verso
destra, però, dobbiamo staccarcene sulla destra, seguendo le indicazioni
del Sentiero Life (targa gialla su un grande masso, segnavia rosso-bianco-rossi
e bianco-rossi). Il Sentiero Life, infatti, effettua un grande giro che
abbraccia, in senso
orario, l’intero pianone del Porcellizzo (detto
anche “Zucùn”, cioè grande buca, catino). Saliamo
ancora un po’, fra pascoli e massi, poi procediamo quasi in piano,
su traccia di sentiero, lungo il bordo rialzato del pianone, ad una quota
approssimativa di 2000 metri. Alcuni ponticelli di legno o di massi affiancati
ci aiutano a superare i viversi torrentelli che dall’ampio salto
glaciale che ci separa dal circo terminale della valle scendono al pianone.
Luogo davvero suggestivo, questo pianone. Un tempo, molto probabilmente,
era occupato da un lago di origine glaciale, che ora, purtroppo, non c’è
più. Resta, al centro della piana erbosa che ne costituisce il
cuore, un grande e squadrato masso erratico, che sembra giunto fin lì
da una qualche remota regione del tempo.
Raggiungiamo, così, la parte più interna del pianone, costituita
da una sorta di conca leggermente rialzata rispetto alla piana principale.
Siamo ai piedi di enormi placche di granito, che nascondono le più
famose cime della testata della valle. In compenso, alla nostra destra,
verso est, possiamo ammirare, da un inconsueto e suggestivo punto di vista,
le cime della costiera del Cavalcorto, dall’affilata punta del pizzo
Camerozzo (m. 2876), sulla sinistra, alle punte Bertani (m. 2803) e Moraschini
(m. 2815), più a destra, fino all’affilata cima del Cavalcorto
(m. 2763), che da qui, però rimane quasi interamente nascosta.
Quel che impressiona sono i vertiginosi salti di granito che dalla costiera
precipitano sui fianchi della valle, quasi a celebrare il trionfo del
regno minerale su quello vegetale, uno dei temi ricorrenti negli ambienti
di Val Masino. Ma, a ben guardare, il pianone propone un esito alterno
della lotta, perché la molteplicità delle forme di vita
vegetali, che trovano il loro equilibrio in questo ecosistema, fanno da
contrappunto, come in un fluire di esili ma tenaci linee melodiche di
flauti e legni, all’incedere perentorio delle figurazioni degli
ottoni di granito. Altri ponti in legno ci assistono nella seconda parte
del circuito, che termina, dopo una breve discesa, sempre nei pressi del
ponte sul torrente principale, questa volta, però, sul lato opposto
del pianone (quello di sinistra, per chi scende).
Non
ci resta che percorrere la parte inferiore della piana, dove si trova
la casera del Porcellizzo (m. 1899), proseguendo sul sentiero che scende
verso i Bagni di Masino. Il sentiero corre, quindi, a ridosso di una parete
di roccia, a sinistra, mentre a destra si affaccia sul torrente che precipita
urlando verso valle. Si chiude così, alle nostre spalle, quello
che è stato definito uno dei più begli scenari alpini, la
corona di cime che regala sfumature di colore sempre diverse innalzandosi
sopra il pianone e lo sterminato circo dell’alta Val Porcellizzo.
Inizia la lunga discesa che ci condurrà alla Corte Vecchia. Il
sentiero taglia dapprima una fascia di prati, passando a sinistra di un
calecc, poi incontra una sorgente (segnalata) e scende fino ad attraversare
il torrente che scende, lungo un impressionante scivolo di granito, dalla
misteriosa val Sione. Dopo una svolta a destra, prosegue nella discesa
lungo il ripido versante di pascoli a sinistra del vallone del torrente,
prima di piegare a sinistra e di assumere un andamento meno ripido.
Superata una seconda fonte, sempre sulla sinistra, eccoci ai due enormi
massi che poggiano l’uno sull’altro, lasciando aperta una
porta nella quale il sentiero è costretto a passare. Una scritta
in caratteri greci ci svela la denominazione del luogo: si tratta delle
Termopili (che significa “porte calde”), nome assegnato ai
massi, nel 1878, dal conte Lurani, per analogia con la celebre stretta
porta che, in terra di Grecia, permise agli Spartani, capeggiati da Leonida,
di tener testa allo sterminato esercito persiano, incommensurabilmente
superiore di numero. La nostra traversata delle Termopili ha un sapore
assai meno epico, e ci porta direttamente all’ultimo tratto di sentiero
che precede la Corte Vecchia, o prima casera del Porcellizzo
(m. 1405).
Qui dobbiamo lasciare il sentiero per i Bagni, cercando, sulla sinistra,
appena prima delle baite, l’indicazione, su un grande masso, del
Sentiero Life (targa gialla). Il sentiero che andiamo ad imboccare è
l’antica via di collegamento fra la bassa Val Porcellizzo e la bassa
Val di Mello. Se ne trova la partenza sul limite della pineta a monte
delle baite, seguendo i segnavia bianco-rossi.
Per un buon tratto il sentiero guadagna quota, attraversando anche una
seconda radura per buona parte occupata dai “lavazz”. Qui
i segnavia sono tracciati su una serie di paletti infissi nel terreno,
che tagliano in diagonale la radura. Rientrati nella pineta, proseguiamo
nella salita, fino ad una stupenda radura, che rappresenta il punto più
alto del sentiero, ad una quota di poco inferiore ai 1500 metri. Alle
spalle degli alberi, verso nord-est, si mostrano le imponenti torri che
segnano la parte terminale della costiera del Cavalcorto. Poi il sentiero
assume un andamento pianeggiante, con qualche sali-scendi, e supera un
primo selvaggio vallone ed una breve fascia di grandi massi che rende
un po’ difficoltoso il transito. In un tratto successivo la traccia
si fa piuttosto stretta e richiede un po’ di attenzione.
Ai tratti nel bosco si alternano alcuni tratti allo scoperto, e si comincia
a scendere. I tratti in discesa si alternano ad alcuni saliscendi, finché
raggiungiamo i prati dell’alpe Brasco (m. 1386),
posta, più o meno, a metà della traversata. Dai ruderi delle
poche baite si gode di un ottimo panorama, che abbraccia, a sud, l’intera
Valle della Merdarola, e a sud-ovest uno spaccato delle valli Ligoncio
e dell’Oro, dal pizzo della Vedretta ai pizzi dell’Oro. A
sinistra appare appena uno scorcio della Val di Mello, con la cima del
monte Disgrazia. L’alpeggio è dominato, a nord, dall’affilata
cima del Cavalcorto (m. 2763), che rappresenta una sorta di apoteosi visiva
della verticalità, ed uno dei simboli più rappresentativi
delle montagne di Val Masino. Rientriamo
nel bosco e, dopo un lungo tratto, raggiungiamo un secondo e più
ampio vallone, al cui centro, sotto massi enormi, troviamo un rudimentale
ricovero. La cima del Cavalcorto, che pare un perentorio indice di granito
puntato direttamente al cielo, si vede ancora, ma è un po’
più defilata.
Rientrati nel bosco, perdiamo gradualmente quota per un buon tratto, finché
l’andamento del sentiero muta, quasi repentinamente: inizia una
discesa più ripida, che porta, alla fine, alla pista sterrata che
dalla piana della Bregolana, appena sopra San Martino, all’inbocco
della Valle dei Bagni di Masino, conduce all’imbocco della Val di
Mello. Percorriamo la pista verso sinistra, fino ad intercettare la strada
della Val di Mello, per la quale scendiamo comodamente a San Martino,
nostro punto d’appoggio al termine di questa quarta giornata. Giornata
che comporta circa 6 ore di cammino, necessarie per superare un dislivello
approssimativo in salita di 700 metri. Lo sviluppo del percorso, infine,
è di circa 12 km.
Chi volesse ulteriori informazioni o aggiornamenti, può
rivolgersi all’ERSAF, a Morbegno (SO), tel. 02 67404.581, fax 02
67404.599, oppure all’Infopoint ERSAF, tel. 02-67404451 o 02-67404580;
può anche scrivere a oscar.buratta@ersaf.lombardia.it,
oppure a life@ersaf.lombardia.it.
Risulta utile anche la consultazione del sito Internet www.lifereticnet.it/italiano/home.htm
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Difficoltà |
E (escursionistica) |
Dislivello |
mt. 700 |
Tempo |
6 h |
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5a
Tappa - Da S. Martino al rifugio Scotti (o Ponti)
La quinta giornata è, insieme alla terza, la più
impegnativa di questa sei giorni. Dobbiamo, infatti, percorrere un buon
tratto della Val di Mello, risalire l’intera Val Romilla per poi
scendere in Valle di Preda Rossa.
Prima di raccontare l’itinerario, è doveroso spendere alcune
parole per presentare quella Val di Mello che è, in assoluto, una
delle più conosciute della Alpi Retiche, per la sua fisionomia
unica. Il volto di questa valle ha radici assai antiche. Tutto iniziò
nell’era quaternaria, cioè nell’ultima era geologica,
iniziata forse 1.800.000 di anni fa. Iniziò con una grande glaciazione,
che coinvolse tutta la catena alpina. Nella zona della futura Val di Mello il ghiaccio ricopriva ogni cosa, fino ad una quota superiore ai 2.500
metri. Immaginiamo lo scenario spettrale: una coltre bianca ed immobile,
dalla quale emergevano, come modesti isolotti, solo le cime più
alte della valle, il monte Disgrazia (m. 3678), i pizzi Torrone, la punta
Rasica, la cima di Castello, la cima di Zocca, i pizzi del Ferro. L’azione
di questo enorme ghiacciaio, lenta, inesorabile, scandita in ritmi difficilmente
immaginabili, cioè in migliaia di anni, cominciò a modellare
il volto della valle: si deve ad essa la straordinaria conformazione delle
pareti granitiche, verticali, con grandi placche lisce, e la forma straordinariamente
levigata delle numerosissime placche di granito. Fu un’azione che
si esercitò in quattro grandi tempi: tante furono, infatti, le
successive glaciazioni (la quarta ebbe inizio 40.000 anni fa), prima dell’ultimo
e definitivo ritiro dei ghiacci alle quote più alte, dove ore di
essi resta solo un’esigua traccia.
Il ritiro del ghiacciaio determinò, anche, il crollo di grandi
blocchi sospesi di granito: li troviamo, ora, muti testimoni di eventi
ciclopici, sul fondovalle, come vassalli erranti degli incombenti signori
della valle, le ardite costiere che la guardano. Così fu disegnato
il profilo arrotondato della valle, dolce e regolare, a produrre un singolare
contrasto con le gotiche ed aspre guglie che
vi si affacciano. Venne, poi, lentamente, la vita, le piante, gli animali
e, da ultimo, l’uomo, che vi giunse spinto dalla necessità
di trovare nuovi pascoli. Vennero, per primi, gli abitanti di Mello, paese
della Costiera dei Cech, che la colonizzarono e le diedero il nome che
ora è conosciuto in tutta Europa. Vennero, poi, sempre più
numerosi, escursionisti ed arrampicatori, attratti dalla presenza quasi
debordante di placche di granito, pareti che sembrano invitare all’arrampicata,
picchi e vie di ascensione sempre da scoprire, che circondano da ogni
lato il tranquillo fondovalle, dove il torrente corre quasi sonnolento.
È proprio lo strano equilibrio fra mondi di versi a costituire
il fascino di questa valle. Appena alzi un po’ gli occhi, alle pareti
delle costiere ed alle valli laterali, hai la netta impressione che qui
la vita, vegetale ed animale, sia solo precaria ospite, adattata, non
si sa come, a sopravvivere fra le pieghe delle trionfanti architetture
di granito, signore della valle. Non appena li riabbassi, l’impressione
cambia: scorci gentili sembrano riportare la vita ad una dimensione di
maggiore sicurezza e tranquillità.
Portiamoci, allora, al sagrato della chiesa parrocchiale di San
Martino, edificata nel secolo XV, ampliata due secoli dopo e
staccatasi dalla parrocchia di Mello nel 1718. Proprio a sinistra della
chiesa parte un viottolo che ci porta ad un sentiero, che se ne stacca
sulla sinistra, per inoltrarsi nella selva che ricopre lo sbocco della
valle. Seguiamolo per un buon tratto, rimanendo più bassi rispetto
alla strada asfaltata che si inoltra nella valle. Prendiamo, poi, la seconda
deviazione che sale verso sinistra, fino ad intercettare la strada, appena
prima di un cartello di divieto di transito ai mezzi non autorizzati.
Proseguiamo, ora, sulla strada, dove, all’asfalto, si sostituisce
il grisc e lo sterrato, fino al ponticello del torrente che scende dalla
valle del Ferro.
Alla nostra sinistra troviamo le case di Ca’ dei Rogni
(m. 1019, a circa 2 chilometri e mezzo da S. Martino). Ma ciò che
si impone allo sguardo è la superba balconata di granito della
valle del Ferro, la prima laterale settentrionale della Val di Mello.
La balconata nasconde alla vista quei pizzi del Ferro che ne costituiscono
la testata, e che invece sono ben visibili da S. Martino. In compenso,
indimenticabile è lo spettacolo del sistema di cascate che scendono
dalla valle, le famose cascate del Ferro, uno dei numerosi aspetti di
interesse naturalistico che la valle offre. La bassa valle del Ferro,
che ha un’apertura assai ampia, è delimitata da due colossali
bastioni granitici: a sinistra le propaggini che scendono dalla cima del
Cavalcorto alle cosiddette Sponde del Ferro, a destra le propaggini della
costiera Ferro-Qualido, un sistema articolato costituito dalle formazioni
del Pappagallo (in basso a sinistra), dello sperone Mark (in basso a destra)
e dal Precipizio degli Asteroidi (in alto a destra). Segnaliamo che, subito
dopo il ponte, possiamo deviare a sinistra, salendo verso le cascate terminali
della valle; una successiva deviazione a sinistra, poco visibile, ci porta
al sentiero che sale alla parte media e superiore di essa, dove si trova
il bivacco Molteni-Valsecchi (m. 2510), leggermente a valle rispetto al
Sentiero Roma.
Ma torniamo al fondovalle e proseguiamo lungo la strada: raggiungiamo
così, in breve, il parcheggio del Gatto Rosso, ampia spianata che
precede l’omonimo ristorante, in località Panscèr
(m. 1061). Qui la pista lascia il posto ad una larga mulattiera, che corre
a sinistra del bellissimo torrente. Un’occhiata alle nostre spalle
ci mostra la testata della valle della Merdarola, laterale della Valle
dei Bagni. Davanti a noi, invece, una sezione della Val Cameraccio, il
maestoso circo che chiude a nord-est la Val di Mello, con la ben visibile,
sulla destra, cima regina del monte Disgrazia.
Alla
nostra sinistra, superata l’ampia apertura della valle del Ferro,
il versante montuoso sembra chiudersi. In realtà si apre il solco
di una nuova valle, la più modesta ed arcana Val Qualìdo,
unica, fra le laterali settentrionali, a non ospitare alcun rifugio o
bivacco. Non è facile scorgere la partenza del sentiero che risale
questa valle: si trova, a circa duecento metri dal Gatto Rosso, sulla
sinistra. Il sentiero è uno dei meno battuti della valle, ma chi
ama questi luoghi (ed ha esperienza e prudenza adeguate) non può
mancare di percorrerlo almeno una volta, perché è di una
suggestione difficilmente esprimibile, soprattutto nel tratto mediano,
dove si arrampica scavato sul fianco di un’enorme e strapiombante
formazione rocciosa, all’ombra dell’immane parete del Qualido,
che incombe ad occidente: un’esperienza da non perdere.
La parete del Qualido, peraltro, è, in parte, osservabile anche
dal fondovalle, e rappresenta probabilmente la massima espressione della
verticalità delle montagne di Val di Mello. La val Qualido ha anche
un secondo solco di accesso, più ad est, in quanto ha la forma
di una “Y” rovesciata, ma questo è molto più
scosceso e dirupato. I due solchi sono separati dalla formazione
denominata il Trapezio d’Argento. A destra del secondo solco, invece,
possiamo osservare la complessa propaggine della costiera Qualido-Zocca,
che propone, nella parte bassa, le formazioni denominate il Brontosauro
e lo Sperone del Sarcofago, mentre più in alto si trova la formazione
denominata Scoglio delle Metamorfosi.
Proseguendo il cammino, non possiamo non restare rapidi dal dolce spettacolo
del torrente, che qui scorre, lento, a fianco della mulattiera, mostrando,
nelle sue acque limpide, rari ricami di luce, e quasi accarezzando un
grande masso che si trova proprio nel mezzo del suo letto. Poi la mulattiera
si allontana dal torrente ed attraversa una fascia di prati, prima di
raggiungere Ca’ di Carna (m. 1076), gruppo di baite poste sul lato
destro (per noi) della valle, raggiungibile valicando un ponticello sul
torrente. Noi restiamo, però, sul lato settentrionale della valle
(a sinistra del torrente), e proseguiamo fino alla successiva località,
Cascina Piana (m. 1092), dove si trova il rifugio Luna
Nascente, dove è possibile effettuare una sosta ristoratrice, ma
anche, qualora ve ne fosse la necessità, chiamare il soccorso alpino.
Fra le baite della località possiamo osservarne una curiosa, che
sembra sintetizzare nel modo più efficace la simbiosi fra uomo
e granito, caratteristica di questa valle: è proprio appoggiata
al fianco di un enorme placca rocciosa, a sua volta quasi adagiata sul
prato del fondovalle.
Proseguiamo, scegliendo il sentiero di destra (non quello di sinistra,
con le indicazioni per il rifugio Allievi): superata una curiosa scultura
su un masso (due volti arcigni sembrano guardarci perplessi), troveremo,
ben presto, sulla nostra destra, un sentierino che si stacca da quello
principale e conduce ad un bel ponte, attraversato il quale ci portiamo
sul lato opposto della valle, dove troviamo il cartello "Temola".
Sul paletto troviamo anche la targhetta azzurra con il logo “Life”.
Prendiamo a sinistra e,
dopo circa duecento metri, raggiungiamo un grande prato. Su un masso,
segnato con segnavia rosso-bianco-rosso, vediamo la targa gialla del Sentiero
Life. Lasciamo, quindi, il sentiero, per risalire il prato in diagonale
verso sinistra, fino ad un grande masso, su cui era segnato in rosso il
numero "7", cui ora è sovrapposto un segnavia bianco-rosso.
A destra del masso parte il sentiero per la val Romilla,
segnato dai segnavia bianco-rossi.
Nel primo tratto la traccia non è molto marcata, poi diventa più
chiara, e si inerpica sul lato destro (per noi) della valle, non distante
dalle sue pareti granitiche, che precipitano con salti impressionanti
sul fondo del suo solco. Dobbiamo prestare attenzione in questa prima
parte, perché il terreno, sempre in ombra, è scivoloso:
la valle, infatti, è “vaga” (per usare un toponimo
diffuso nelle montagne di Valtellina, che significa esposto a nord, e
quindi ombroso ed umido), o “pürìva” (per usare
una voce dialettale che ha il medesimo significato). Intorno ai 1400 metri,
dopo un tornante verso destra, ci ritroviamo proprio sotto una parete
strapiombante, che si inarca minacciosa sopra il nostro capo, con grosse
crepe sinistre, mettendoci i brividi. Poco oltre i 1500 metri, una traccia
segnalata da un segno rosso su un sasso si stacca alla nostra destra:
la ignoriamo. Poco sotto i 1600 metri dobbiamo prestare attenzione, per
non perdere la deviazione a sinistra che ci permette di attraversare il
torrentello della valle. Il sentiero, qui, si districa a fatica, fuori
del bosco, su un terreno ingombro di materiale franoso: una recente frana,
infatti, ha creato una caotica congerie di massi e vegetazione. Qualche
scheletro di albero colpito dai fulmini rende ancora più desolato
questo angolo della valle. Prendiamo, dunque, a sinistra, passando nei
pressi di un cartello di divieto di caccia e di un ometto. Il sentiero
si porta sul centro della valle ed al suo torrentello, che
superiamo facilmente (attenzione, però, ai sassi molto scivolosi!).
Sul lato opposto il sentiero sale per un breve tratto e, piegando a sinistra,
entra in un bel bosco di conifere; dopo un breve traverso, ci porta ad
una radura, dove si trova una baita ristrutturata. Si tratta della Romilla
(m. 1618), detta anche "Belvedere", perché
da qui la visuale sulla valle di Zocca e sui pizzi Torrone è già
molto buona.
Il sentiero riparte alle spalle della baita, sulla destra (il segnavia
bianco-rosso su un masso ci orienta; attenzione a non prendere il sentiero
alla sua sinistra, che porta, con andamento pianeggiante, ad una radura),
riprendendo la salita. Dopo una serie di ripidi tornanti, ci ritroviamo
proprio a ridosso del roccioso fianco settentrionale della valle, dove
un muricciolo delimita un rudimentale ricovero che ha come tetto una grande
placca di granito. Poi, volgendo a destra, ci stacchiamo gradualmente
dal fianco della valle e, a quota 1750 circa, in corrispondenza di un
nuovo cartello di divieto di caccia, il sentiero lascia il bosco. Per
circa 150 metri la sua traccia sale in una rada boscaglia, alternata a
radure, e diventa molto incerta ed intermittente. È questo il tratto
in cui il rischio di perderla, se la si percorre in discesa prestando
scarsa attenzione ai segnavia, è concreto. Infine, al termine di
un breve corridoio, al cui ingresso si trova un nuovo cartello di divieto
di caccia, raggiungiamo il pianoro principale della valle, sul cui limite
troviamo una baita diroccata
(m. 1922).
Qui la valle, soprattutto alla nostra sinistra, mostra un volto molto
più gentile e consono ad un nome che sembra suggerire accenti di
dolcezza. Il lato sinistro è dominato dal pizzo dell'Averta (m.
2853) e, alla sua sinistra, dalla cima quotata m. 2806. Lo spettacolo
di gran lunga più suggestivo si sta però preparando alle
nostre spalle. Ma dobbiamo salire ancora un po' per cominciare ad ammirarne
la grandiosità. Scendiamo, allora, al pianoro paludoso sottostante
ed attraversiamolo, sfruttando anche un ponticello in legno . La traccia
di sentiero riprende a salire, sul lato opposto, su un dosso erboso, passando
a destra del rudere di un calecc e di alcuni massi ciclopici (con la targa
gialle del Sentiero Life), presso i quali si trova il rudere di un secondo
calecc.
Alla sommità del dosso si trova un modesto terrazzo erboso: volgendo
le spalle, possiamo ammirare, in primo piano, l’alta Valle di Zocca
e, alla sua sinistra, uno spaccato dell’alta Val Qualido. Oltre
il terrazzo, il sentiero comincia a piegare a sinistra, serpeggiando fra
pascoli e placche arrotondate, raggiungendo il filo di un largo dosso
erboso. Piegano leggermente a destra, risale il dosso per un buon tratto;
piega, poi, ancora leggermente a destra ed effettua una diagonale, che
lo porta al rudere della baita quotata 2075 m. Guardando in alto, distinguiamo
facilmente dove si trova il punto di arrivo della salita, cioè
quel passo Romilla (o dell’Averta) che si affaccia sulla Valle di
Preda Rossa: è leggermente a destra della nostra verticale (a destra
della punta dell’Averta), ancora nascosto dall’ultimo gradino
della valle (da qui vediamo solo il disegno dell’intaglio, non ancora
il passo; se, invece, guardiamo verso sinistra, vedremo un secondo intaglio
che potrebbe farci sospettare ad un passo, ma non è così).
Dal
rudere parte un nuovo dosso erboso, ed il sentiero lo risale, fino ad
una fascia di massi, che viene attraversata verso destra. Restando sul
filo del dosso e sul limite destro di una fascia di massi, il sentiero
prosegue nella salita. Seguiamo i segnavia bianco-rossi, per evitare percorsi
più dispendiosi. La salita è piuttosto faticosa, ma può
essere opportunamente intervallata da soste, che permettono di ammirare
la sequenza maestosa delle cime del gruppo del Masino, dai pizzi del Ferro,
alla nostra sinistra, alla punta Baroni, alla nostra destra. Passiamole
in rassegna: si mostrano, da sinistra, i pizzi del Ferro occidentale (o
cima della Bondasca, m. 3267), centrale (m. 3287) ed orientale (m. 3200),
sulla testata della valle omonima, la cima di Zocca (m. 3175), la punta
Allievi (m. 3123), la cima di Castello (m. 3386), la punta Rasica (m.
3305), le celeberrime cime della Valle di Zocca, ed ancora i pizzi Torrone
occidentale (m. 3349), centrale (m. 3290) ed orientale (m. 3333, riconoscibile
per il sottile ago alla sua sinistra), sulla testata della valle omonima,
il monte Sissone (m. 3331) e la cima di Chiareggio nord-occidentale, o
punta Baroni (m. 3203), sulla testata della Val Cameraccio. Si tratta
di uno spettacolo estremamente suggestivo, in una giornata limpida.
Ma torniamo alla salita: terminala la stretta lingua erbosa, non possiamo
evitare un tratto fra i massi, fino ad raggiungere un nuovo corridoio
erboso, che il sentiero risale. Ci troviamo a sinistra di una sorta di
morena, e cominciamo ad incontrare una curiosa situazione policroma: i
segnavia bianco-rossi si soprappongono a segnavia verdi e bianco-verdi,
tracciati precedentemente per segnalare un sentiero alto sul versante
meridionale della Val di Mello. Dopo una nuova fascia di massi, qualche
ultimo lembo erboso e, di nuovo, una fascia di grandi massi, ci affacciamo,
a quota 2400 m. circa, alla soglia terminale della valle, una grande conca
occupata da sfasciumi e da un nevaietto. In cima al versante terminale,
ecco il passo, costituito dalla selletta pianeggiante posta a sinistra
di un evidente gendarme roccioso. Il sentiero passa a sinistra del nevaietto
e, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, non affronta direttamente
il canalino terminale, sul quale corre, peraltro, una traccia
di sentiero, ma rimane sulla sinistra, salendo alle roccette che si trovano
a fianco del passo, che raggiungiamo dopo un ultimo breve traverso a destra
(il passaggio è un po’ esposto, per cui richiede attenzione).
Alla fine i 2546 metri della facile sella del passo sono raggiunti. Prima
di gettare uno sguardo sul versante opposto, osserviamo ancora quello
della Val di Mello. Se osserviamo la costiera che separa la val Qualido
dalla valle di Zocca, potremo scorgere l'altro e più celebre passo
dell'Averta, punto di passaggio indimenticabile sul Sentiero Roma. Questo
è già di per sé assai curioso, ma c'è di più:
i due passi omonimi sono pressoché alla medesima altezza (il nostro
a 2546 metri, quello sul sentiero Roma a 2540 metri). Forse proprio per
evitare confusioni si preferisce ora denominare il nostro valico passo
Romilla. La precedente scritta “Averta”, che si trovava
proprio sul passo, è ora stata sostituita dalla scritta “Romilla”.
Sul passo si trova anche, manco a dirlo, la targa gialla del Sentiero
Life. Il panorama, in direzione della Val di Mello, è mutato: non
si vedono più i pizzo Torrone, il monte Sissone e la punta Baroni,
ma, a sinistra dei pizzi del Ferro, si intravedono i pizzi Badile e Cengalo,
seminascosti dietro la costiera del Cavalcorto; più a sinistra
ancora, vediamo uno spaccato della Valle dell’Oro, con il pizzo
Ligoncio ed i pizzi dell’Oro.
Sul versante della Valle di Preda Rossa, invece, ci troviamo alla sommità
della valle d'Averta; alla nostra sinistra, infatti, il passo è
chiuso dalle rocce del crinale di sud-ovest del pizzo o punta dell'Averta
(m. 2853). Guardando in questa direzione dal passo è visibile,
a destra, un suggestivo scorcio della catena orobica (oltre l'alpe Scermendone).
A sinistra, invece, si mostra, per ora, solo
uno dei due Corni Bruciati, e precisamente la punta centrale (m. 3114);
per la verità, dovremmo menzionare, alla sua destra, anche la punta
sud-occidentale (m. 2958), che di solito non si considera, in quanto ci
si riferisce solamente alle due punte principali (nord-orientale, m. 3097,
e centrale, appunto), quelle che, in diversi momenti, ci è già
capitato di osservare lungo il cammino.
Vediamo, ora, come scendere alla piana di Preda Rossa. Il primo tratto
della discesa supera un ripido versante erboso, con qualche serpentina,
e ci porta, piegando a sinistra, ad una fascia di massi, dove i segnavia
bianco-rossi si alternano a quelli bianco-verdi. Superata, con una diagonale
verso sinistra, la fascia, torniamo su un terreno di magri pascoli e,
piegando leggermente a destra, scendiamo quasi diritti per un breve tratto,
fino ad una nuova fascia di massi. Passiamo, quindi, a destra di un dosso,
piegando ancora leggermente a sinistra prima, a destra poi. Scendiamo
per un buon tratto lungo una fascia erbosa, più o meno al centro
della valle, lasciando due grandi fasce di massi alla nostra destra ed
alla nostra sinistra. Giunti, però, in vista del rudere della baita
dell’Averta (m. 2242) ed in prossimità di un larice solitario,
pieghiamo decisamente a sinistra, cambiando direzione (da sud ad est),
e proseguendo in direzione della costiera che separa la valle dell’Averta
dai versanti nord-occidentali dell’alta Valle di Preda Rossa. Superiamo,
così, una sorta di corridoio fra i massi, raggiungendo di nuovo
un corridoio erboso, a ridosso delle placche di granito della costiera.
È ben visibile, ora, sotto di noi, alla nostra destra, la piana
di Preda Rossa, attraversata dai pigri meandri del torrente. Vediamo,
ora, anche la punta nord-orientale dei Corni Bruciati.
Una breve salita ci porta ad una nuova, lunga e noiosa fascia di massi:
attraversiamola con pazienza ed attenzione. Davanti a noi comincia a profilarsi
l’imponente mole del monte Disgrazia (m. 3678). Dopo un breve intervallo,
ci attende una seconda fascia di massi, altrettanto noiosa, attraversando
la quale perdiamo gradualmente quota. Se guardiamo alla nostra sinistra,
restiamo
stupiti di fronte alla vertiginosa parete verticale che precipita dalla
punta d’Averta. Superati gli ultimi massi, troviamo una traccia
di sentiero che prosegue nella diagonale di discesa, proponendo anche
un passaggio elegantemente scalinato, fra due placche di granito. Poi
pieghiamo decisamente a destra, invertendo, quasi la direzione ed attraversando
una sorta di corridoio, delimitato, a sinistra, da una grande placca.
Ora la piana di Preda Rossa ce la ritroviamo proprio davanti a noi, rasserenante,
tranquilla. Superato il corridoio, pieghiamo ancora a sinistra, ed iniziamo
una serie di tornanti, perdendo quota più rapidamente, fra massi,
macereti ed erbe, fino ad intercettare, ad una quota approssimativa di
2100 metri, il sentiero che dalla piana di Preda Rossa
sale al rifugio Ponti, i corrispondenza di una seconda piana minore posta
a monte della piana di Preda Rossa.
Che fare, ora? L’itinerario di visita ai 5 siti di interesse comunitario
termina qui, e quindi potremmo anche considerare conclusa la nostra traversata.
Il consiglio, però, è di prolungarla con il passaggio alla
Val Torreggio (Valmalenco), possibile in due modi: dal rifugio Ponti per
il passo di Corna Rossa, oppure dal rifugio Scotti per i passi di Scermendone
e Caldenno. In questo secondo caso (ed anche nel caso ritenessimo, legittimamente,
concluso il Sentiero Life), scendiamo alla piana di Preda Rossa (m. 1950
circa) e, di qui, per la strada asfaltata o per il sentiero che la taglia
in più punti, alla Valle di Sasso Bisòlo, dove si trova
il rifugio Scotti
(m. 1462). Nel primo caso, invece, riprendiamo la salita, sul sentiero
segnalato, fino al rifugio Ponti
(m. 2559).
Ecco il bilancio della quinta giornata (esclusa l’eventuale salita
al rifugio Ponti, che richiede circa 450 metri aggiuntivi): un dislivello
in salita di circa 1600 metri, 8 ore di cammino ed uno sviluppo di circa
20 km. Roba per camminatori tosti!
Chi volesse ulteriori informazioni o aggiornamenti, può
rivolgersi all’ERSAF, a Morbegno (SO), tel. 02 67404.581, fax 02
67404.599,
oppure all’Infopoint ERSAF, tel. 02-67404451 o 02-67404580; può
anche scrivere a oscar.buratta@ersaf.lombardia.it,
oppure a life@ersaf.lombardia.it.
Risulta utile anche la consultazione del sito Internet www.lifereticnet.it/italiano/home.htm
|
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Difficoltà |
EE (escursionisti esperti) |
Dislivello |
mt. 1600 |
Tempo |
8 h |
|
6a Tappa - Dal rifugio Scotti (o Ponti) al rifugio Bosio
Il Sentiero Life delle Alpi Retiche, pensato per consentire
di visitare i cinque siti di interesse comunitario, si può considerare
concluso con la quinta giornata. La sesta rappresenta una sorta di completamento,
consigliato, e propone la traversata in Val Torreggio (Valmalenco), analogamente
a quanto accade per il Sentiero
Roma ed il Sentiero Italia
Lombardia nord 3. Questa traversata, a sua volta, può avvenire
per due vie: partendo dal rifugio Ponti e sfruttando il passo di Corna
Rossa (ed in tal caso ricalca il percorso del Sentiero Roma), oppure partendo
dal rifugio Scotti e sfruttando i passi Scermendone e Caldenno. Per la
verità si può partire, in entrambi i casi, da ambedue i
rifugi: il rifugio Scotti offre il vantaggio di non gravare la quinta
giornata del Sentiero Life di un dislivello aggiuntivo in salita di circa
450 metri (visto che ne richiede già 1600 di suo!).
Vediamo
entrambe le possibilità, chiamandole variante A (alta) e B (bassa).
La variante A, innanzitutto. Dal rifugio
Ponti, seguendo le abbondanti segnalazioni, si può
salire al passo di Corna Rossa. Questo itinerario, nella sua prima parte,
coincide con quello seguito dagli alpinisti che scalano il Disgrazia.
Si attraversa il primo torrente che scende dal ghiacciaio di Preda Rossa,
per poi salire sul filo della grande morena centrale che termina ai piedi
del medesimo ghiacciaio. Seguendo le bandierine rosso-bianco-rosse, si
scende, quindi, sul lato opposto, seguendo un sentierino e, ignorate le
indicazioni per il monte Disgrazia, si raggiunge un masso sul quale è
segnalato il percorso per i rifugi Desio e Bosio.
Volgendo lo sguardo alle spalle, si può godere di un buon colpo
d’occhio sulla poderosa costiera Remoluzza-Arcanzo, fra Valle di
Preda Rossa e Val di Mello, sulla quale sono individuabili, da nord (cioè
da destra) la bocchetta Roma, il pizzo della Remoluzza (m. 2814), il pizzo
di Averta (m. 2853), il pizzo Vicima (m. 2687), la cima degli Alli, o
Ali (m. 2725) e la cima di Arcanzo (m. 2715). La discesa termina sul greto
del secondo torrente che scende dal ghiacciaio e che deve essere attraversato.
Il sentiero è a tratti ben visibile, ma talora ci si deve affidare
alle segnalazioni.
Fra massi rosseggianti sempre più numerosi e con immagini sempre
diverse del monte Disgrazia (m. 3678, alla cui sinistra si
individua bene la sella di Pioda, a sua volta a destra del monte Pioda),
il percorso prosegue, passando a monte della seconda morena della valle,
quella orientale, e giungendo ad un grande masso, su cui un’indicazione
indirizza ad un nevaio che è presente anche a stagione avanzata
e che deve essere risalito. E' già visibile, in alto, la piccola
depressione del passo (m. 2836), posto a sud della cima di Corna Rossa
(m. 3180); il monte Disgrazia, intanto, si defila sempre più dietro
la dorsale della punta di Corna Rossa.
Il nevaio va tagliato verso sinistra, o aggirato a monte, con cautela,
perché, nella parte alta, è abbastanza ripido, per cui vale
la pena di calzare i ramponi. Raggiunta la fascia di rocce sul suo limite
superiore, si inizia la salita su un fondo costituito da terriccio, sassi
mobili e massi talora scivolosi. Per questo va affrontata con cautela:
in un paio di punti corde fisse la rendono più sicura. Sono pochi
i punti esposti, ma conviene ugualmente salire senza fretta. Poco oltre
il secondo punto attrezzato con corde fisse, si raggiunge finalmente il
passo di Corna Rossa, annunciato dalla punta del parafulmine
posto nei suoi pressi (e tutt’altro che superfluo: la zona, per
la presenza di rocce con alto contenuto ferroso, è particolarmente
bersagliata dai fulmini; lo si tenga presente e si eviti, di conseguenza,
di affrontare la salita al passo in condizioni di tempo incerto).
La prima immagine che lo sguardo incontra, oltre il passo, è quella
del versante destro della Val Torreggio. Volgendo lo sguardo a sinistra
si vede il versante sinistro della Val Airale, prosecuzione della Val
Torreggio. Più a sinistra ancora, ecco il rifugio
Desio (m. 2830), chiuso perché pericolante, a seguito delle
eccezionali nevicate dell’inverno 2000-2001: esso rimane oltre
il crinale, per cui non è visibile per chi sale. Volgendosi ancora
a sinistra si ammirano la morena centrale di Preda Rossa, parte della
costiera Remoluzza-Arcanzo e, sul fondo, alcune fra le più famose
cime della Val di Mello, che, durante le precedenti giornate, abbiamo
imparato a conoscere bene: i pizzi del Ferro, la cima di Zocca ed i pizzi
Torrone, fra i quali spicca, per la forma a punta di lancia, il pizzo
Torrone orientale. Visto da qui, il rifugio Ponti non è che un
piccolo punto perso fra le gande.
Dal passo di Corna Rossa, attraverso la Val Airale, si deve, ora, scendere
in Val Torreggio, il cui fondo è dominato dai Corni Bruciati. Per
farlo si seguono gli abbondanti segnavia rosso-bianco-rossi, che dettano
il percorso più razionale fra un mare di massi rossi di tutte le
dimensioni, in direzione sud-sud-est. Si presti attenzione a non seguire
la deviazione a sinistra, anch’essa segnalata, per i laghetti
di Cassandra.
In realtà potrebbe essere un’interessante variante visitare
questo splendido sistema di laghetti in un vallone nascosto ai piedi del
pizzo di Cassandra. In tal caso seguiamo i segnavia che ci guidano nella
traversata in direzione est, che ci porta a scendere da uno sperone roccioso
al più alto dei laghetti (m. 2746), nelle cui splendide acque di
un blu intenso si specchia il nevaio che scende dal ghiacciaio della Cassandra.
Proseguiamo, seguendo le rade indicazioni, descrivendo un arco verso destra
sud-est ed ignorando, sulla sinistra, la deviazione per il passo Cassandra
(m. 3097), che permette di accedere alla Vedretta della Ventina, in alta
Valmalenco.
L’arco
descritto ci permette di giungere in vista dei due laghetti inferiori
(m. 2464). Prendendo ancora a destra scendiamo al più grande, passando
a sinistra di un pronunciato torrione, quotato 2710 metri, ed a destra
di una enorme ganda. In prossimità del laghetto dobbiamo superare,
con una certa fatica, una fascia di grandi massi rossi (seguiamo i segnavia,
per non complicarci inutilmente la vita). Poi, piegando ancora a destra,
superiamo una breve porta e, sfruttando un facile canalino, raggiungiamo
il pianoro quotato 2391 metri. Volgendo a sinistra e seguendo i segnavia
bianco-rossi, superiamo, con cautela, un sistema di roccette e, dopo un’ultima
discesa, intercettiamo il sentiero principale che dal passo di Corna Rossa
scende alla piana della Val Torreggio.
Ma torniamo a questo sentiero principale. Con una discesa piuttosto monotona,
questo, a quota 2560 circa, piega a sinistra, passando dalla direzione
sud alla direzione sud-est. Lasciati alle spalle i grandi massi, proseguiamo
la discesa su un terreno misto, fino a giungere in vista della splendida
piana della Val Torreggio, dove, a 2086 metri di quota, troviamo il rifugio
Bosio. La piana, nella quale il torrente Torreggio disegna
qualche pigro meandro, è dominata, ad ovest, dai Corni Bruciati
(settentrionale, m. 3097, e meridionale, m. 3114), che, alla fine, risultano
le cime che più risaltano nell’intero Sentiero Roma: li possiamo
vedere, sotto diverse angolatura, infatti, dalla Val Ligoncio e dal passo
del Barbacan nord fino alla Val Torreggio, cioè durante tutte le
giornate della traversata, esclusa la prima. La variante A (se partiamo
dal rifugio Ponti) comporta un dislivello approssimativo in salita di
330 metri e richiede circa 3/4 ore di cammino.
Vediamo,
ora, la variante B, che comporta, innanzitutto, la salita
da Sasso Bisolo all'alpe di Scermendone basso. Seguiamo, in questo caso,
per un tratto la strada asfaltata, dal rifugio
Scotti fino al gruppo di baite, con la casera, che si trovano
alla nostra destra. Imboccando una pista appena marcata, lasciamo ora
la strada, superiamo le baite e puntiamo verso est (diagonale verso destra),
in direzione del torrente, che scorre a ridosso del fianco meridionale
della valle (cioè alla nostra destra). Raggiunta la sua riva, la
seguiamo, sempre verso est (monte), fino a trovare un ponticello che ci
permette di passare sul versante opposto, dove troviamo il sentierino
che sale all'alpe di Scermendone basso, tenendosi sul versante meridionale
dell'estrema propaggine della Val Terzana (alla nostra sinistra, infatti,
è scavata la gola terminale che precede il punto in cui la Val
Terzana confluisce nella Valle di Sasso Bisolo).
Dopo qualche tornantino, il sentiero (segnalato da qualche raro segnavia
rosso-bianco-rosso) raggiunge le baite della località Corticelle
(Curtiséi, m. 1546), e prosegue, salendo, alle loro spalle, in
una breve macchia, prima di piegare a sinistra, uscire all'aperto e superare
un primo valloncello, raggiungendo i prati della baita di quota 1762.
Superato un secondo valloncello, entriamo per un buon tratto in bosco
di larici, prima di raggiungere il limite inferiore dei prati immediatamente
a valle dell'alpe. Teniamo presente che la traccia non è continua,
e tende a perdersi nei prati attraversati: per ritrovarlo, immaginiamo
quindi di effettuare
una diagonale che li tagli dal limite inferiore raggiunto a quello superiore.
Dai prati raggiunti saliamo, puntando la baita solitaria che sta sulla
nostra verticale, fino a raggiungere, attraversato un breve corridoio,
la soglia del pianoro di Scermendone basso (un'alpe ancora
utilizzata nel periodo estivo), dove raggiungiamo la casera, a quota 2050
metri. Davanti ai nostri occhi si apre un suggestivo scorcio dell'alta
Val Terzana, dove è facilmente riconoscibile il passo di Scermendone,
che porta in alta Valle di Postalesio. Oltrepassata la casera, proseguiamo
per un tratto in direzione del fianco montuoso alla nostra destra, dove
troveremo un largo sentiero (quasi un tratturo) che comincia a salire
fra i macereti, con una prima diagonale verso sinistra, ed una seconda
verso destra, fino ad intercettare il sentiero per la Val Terzana nei
pressi della chiesetta di S. Quirico e del bivacco
Scermendone, all’alpe Scermendone.
Possiamo giungere fin qui anche partendo dalla piana di Preda Rossa (m.
1908). In questo caso, giunti allo spiazzo che, terminata la strada asfaltata,
funge anche da parcheggio, invece di seguire le indicazioni per il rifugio
Ponti, cerchiamo, sulla destra, un ponticello che attraversa il torrente
e, valicato un valloncello, effettua una traversata che taglia la frana
scesa dal Sasso Arso e porta a Scermendone Basso (m. 2032). Qui, superato
il torrente su un nuovo ponticello, puntiamo a sud, cioè direttamente
al versante del monte, dove troviamo la già citata mulattiera che
ci porta, in breve, alla chiesetta di San Quirico.
Bene: in un modo o nell’altro abbiamo raggiunto San Quirico. Vale
la pena, se non l’abbiamo già fatto salendo da Granda, percorrere
il lungo alpeggio, di una panoramicità più unica che rara.
Il colpo d’occhio sulla piana di Preda Rossa e sul monte Disgrazia,
in particolare, è di incomparabile bellezza. La chiesetta, poi,
è un piccolo ed antichissimo gioiello, non a caso posta qui, a
testimonianza non solo dell’importanza primaria dell’alpe,
ma anche della sua posizione strategica, come punto di passaggio
dei pellegrini che, percorrendo poi proprio la val Terzana, valicando
il passo di Scermendone e quello di Caldenno, scendevano in Valmalenco.
Questa direttrice della traversata Val Masino-Valmalenco corre più
a sud di quella del Sentiero Roma, che passa dal passo di Corna Rossa,
e non sfigura nel confronto con quest’ultima; anzi, dal punto di
vista strettamente panoramico si fa sicuramente preferire. Alle spalle
della chiesetta, la Val Terzana ci appare già in tutta la sua apertura,
fino al passo di Scermendone: uno spettacolo di grande suggestione. Scendendo
da San Quirico ad una grande vasca in cemento per la raccolta dell’acqua,
posta poco ad est del baitone, possiamo trovare, in una nicchia, una sorgente,
con una scritta non facile da leggere. Si tratta della celebre “Acqua
degli occhi”, una sorgente di acqua che la tradizione popolare vuole
terapeutica per i malanni che toccano la vista. Per capire perché,
dobbiamo però risalire al bivacco Scermendone, dove, sulla porta,
è affisso un articolo di giornale nel quale si racconta la leggenda
cui quest’acqua è legata. Vale la pena di raccontarla anche
in questa sede, perché ci aiuta ad entrare meglio nello spirito
dell’aspro scenario settentrionale della valle, con la sua sofferta
compagine di rocce dalla tonalità rossastra.
È
la celebre leggenda di Preda Rossa e dei Corni Bruciati. Un tempo questi
non erano, come ora, desolate torri di roccia rossastra, ma bei pizzi
alle cui falde si stendevano, nelle valli Preda Rossa e Terzana, splendide
pinete e pascoli rigogliosi. Vi giunse, un giorno, un mendicante lacero
ed affamato, che si rivolse, per essere ristorato, a due pastori, l’uno
di animo buono, il secondo di animo gretto e malvagio. Quest’ultimo
lo schernì e gli disse che poteva offrirgli solo gli avanzi del
cane, mentre il primo ne ebbe pietà, lo rifocillò e gli
cedette il giaciglio per la notte. Il mattino seguente il mendicante prese
in disparte il pastore buono e gli ordinò di lasciare subito Preda
Rossa per salire a Scermendone e tornare a Buglio, senza mai voltarsi,
qualunque cosa avesse sentito alle sue spalle. Il pastore vide il suo
aspetto trasfigurarsi, divenendo luminoso e maestoso, e capì che
si trattava del Signore, per cui obbedì senza indugio. Lasciata
Preda Rossa, cominciò a sentire alle proprie spalle un gran fragore,
grida, rumore di piante e massi che rovinavano a valle, ma proseguì
il cammino, ricordandosi dell’ingiunzione del Signore. Quando, però,
ebbe raggiunto il crinale di Scermendone alto, e si accingeva a scendere
verso Buglio, non resistette, volse lo sguardo. Fece appena in tempo a
vedere uno spettacolo apocalittico, un rogo immane che divorava i boschi,
ma, ancora di più, la stessa montagna, che si sgretolava e perdeva
enormi massi, i quali precipitavano, incandescenti, a valle. Vide solo
per un istante, perché fu subito accecato da due scintille, che
lo avevano seguito. Pregò, allora, il Signore che lo perdonasse
per la disobbedienza, e questi lo esaudì, chiedendogli di battere
il piede contro il terreno e di bagnare gli occhi all’acqua della
sorgente che sarebbe da lì scaturita. Fece così, e riebbe
la vista, tornando a Buglio a raccontare i fatti tremendi di cui era stato
testimone. Da allora il fianco di sud-est della Valle di Preda Rossa e
quello settentrionale
della Val Terzana restano come desolato monito che ricorda agli uomini
l’inesorabilità della punizione divina per la loro malvagità.
Anche i nomi parlano di una remota e terribile vicenda che ha segnato
quest’angolo di Val Masino: il Monte Disgrazia, prima, si chiamava
Pizzo Bello, denominazione, poi, trasferita alla meno maestosa cima che,
con i suoi 2743 metri, presidia l’angolo di sud-est della Val Terzana.
Vale la pena di ricordare, infine, che il vicino bivacco di Scermendone
offre un punto di appoggio preziosissimo in caso di maltempo.
In cammino, ora: a noi sarà, però, concessa la libertà
di volgerci indietro, talora per ammirare ottimi scorci panoramici sulle
cime della Valle dell’Oro (dove spicca, con il suo profilo tondeggiante
e un po’ tozzo, il pizzo Ligoncio). A poche decine di metri da San
Quirico parte una pista che si addentra in Val Terzana,
tagliandone il fianco meridionale, fino alla già citata alpe Piano
di Spini (m. 2198). Alle spalle della baita di sinistra dell’alpe
comincia, poi, un sentiero (segnavia rosso-bianco-rossi), che sale per
un tratto verso sinistra, sormonta un dosso e prosegue verso nord-est,
fino ad un breve corridoio nella roccia, che ci porta qualche metro sopra
il laghetto di Scermendone (m. 2339). Si tratta di uno
specchio d’acqua non ampio, ma pur sempre considerevole, sia per
la sua bellezza, sia per il fatto che, insieme ai laghetti della Valle
di Spluga e ad uno specchio ancor più modesto al centro della val
Cameraccio, è ciò che resta di una presenza di laghi alpini
che, in Val Masino, dovette essere, in tempi remoti, ben più consistente.
Una sosta sulle sue rive permette di osservare il Sasso Arso ed i Corni
Bruciati: viste da qui, queste formazioni montuose mostrano bene la ragione
della loro denominazione.
Il
sentiero comincia, poi, a piegare gradualmente a sinistra: passiamo così
a monte di un pianoro, che lasciamo alla nostra destra, superiamo qualche
modesta roccetta e superiamo il torrentello della valle, portandoci alla
sua sinistra. Il passo è sempre là, visibile quasi per l’intero
percorso, e si fa, poco a poco, più grande. In questo tratto passiamo
a destra di uno sperone di roccia, ovviamente dalla tonalità rossastra,
non molto alto (m. 2621), che però, visto da qui, fa la sua bella
figura. Alle sue spalle i Corni Bruciati, di cui però è
difficile distinguere la cima, perché, da questo angolo visuale,
si mostrano assai meno pronunciati di quanto non appaiano dalla Valle
di Preda Rossa. Lo scenario alla nostra destra è, invece, diverso:
a sinistra della tondeggiante cima di Vignone, un largo canalone, quasi
interamente occupato da sfasciumi, sale, con pendenza modesta, fino ad
una depressione sul crinale. La salita parrebbe agevole, ma la discesa
sull’opposto versante erboso, che guarda all’alpe Baric, è
piuttosto difficoltosa nel primo tratto, ripido ed esposto. A sinistra
del canalone, ecco, poi, la cima quotata 2643 metri, che una modesta sella
separa dal pizzo Bello, di cento metri più alto. Per la verità
quest’ultima cima si mostra, da qui, niente affatto bella: anzi,
il suo versante di nord-ovest è costituito da una parete verticale
di scura roccia, ben diversa dal ripido ma erboso versante opposto. Ancora
più a sinistra, una serie di guglie rocciose segna il crinale fino
al passo, sorvegliato da due torri guardiane.
Dai 2595 metri del passo di Scermendone ci affacciamo,
alla fine, dopo un’ora e mezza circa di cammino da San Quirico,
all’alta Valle di Postalesio, e vediamo subito il meno pronunciato
passo gemello (quello di Caldenno), che permette di scendere al rifugio
Bosio, in Val Torreggio (Valmalenco). Oltre il crinale orientale della
valle, possiamo individuare alcune cime assai distanti fra di loro: i
corni di Airale, in Val Torreggio, a sinistra, poi il lontano pizzo Varuna
(o Verona), sulla testata della Valmalenco, ed ancora la cima Viola, fra
Valle d’Avedo (val Grosina) e Valle Cantone di Dosdè, ed
infine, sulla destra, il pizzo Scalino e la punta Painale. Volgendoci
verso
la Val Terzana, la dominiamo interamente, e scorgiamo il laghetto di Scermendone
ed un bel tratto dell’omonima alpe, da cui siamo partiti.
La discesa in alta Valle di Postalesio sfrutta un sentierino
ripido e molto marcato, che scende diritto per un tratto, piega a sinistra,
scende di nuovo diritto prima di puntare a destra, verso il pianoro dell’alta
valle, duecento metri circa più in basso rispetto al passo. Dal
passo in poi i segnavia sono bolli rossi con bordo giallo. Nell’ultima
parte della discesa, lasciamo alla nostra sinistra una grande ganda, costituita
da massi rossatri, così come rossastre sono le cime che, sulla
testata della valle, ci nascondono la vista del monte Disgrazia. L’incendio
di Preda Rossa è giunto fin qui? La leggenda non lo dice. C’è
però un’altra leggenda, che parla dei “cunfinàa”,
cioè delle anime che, per le loro colpe, sono state condannate
a scalpellare eternamente questi innumerevoli massi (e, se prestiamo attenzione,
ne vediamo, effettivamente, di tutte le dimensioni). Tuttavia il loro
lavoro disperato inizia solo sul far del tramonto: solo allora si possono
udire i colpi sordi e sconsolati del metallo sulla pietra.
Prima che ciò accada, portiamoci al solco del torrente e valichiamolo,
prendendo, poi, a sinistra e lasciando alla nostra destra i segnavia che
indicano il sentiero che scende in media Valle di Postalesio, all’alpe
Palù. Il sentiero riprende quota e, dopo un traverso a sinistra,
punta a destra, in direzione del passo di Caldenno. Dopo
un ultimo traverso esposto sul fianco assai ripido dell’alta
valle, raggiungiamo anche questo secondo passo (m. 2517), dal quale possiamo
ammirare una veduta davvero suggestiva del monte Disgrazia.
Il panorama che si apre è molto interessante anche verso est, dove
si scorge l'elegante profilo del pizzo Scalino, che introduce all'inconfondibile
atmosfera della Valmalenco.
La salita è terminata: inizia ora una lunga discesa in val Torreggio,
inizialmente verso est e poi verso nord est.
Seguendo le segnalazioni, si raggiunge facilmente il rifugio Bosio,
posto in un incantevole pianoro al centro della valle (m.2086), il cui
sfondo è dominato dai Corni Bruciati.
La variante B (se partiamo dal rifugio Scotti) comporta un dislivello
in salita approssimativo di 1230 metri, e richiede circa 5 ore di cammino.
Chi volesse ulteriori informazioni o aggiornamenti, può
rivolgersi all’ERSAF, a Morbegno (SO), tel. 02 67404.581, fax 02
67404.599, oppure all’Infopoint ERSAF, tel. 02-67404451 o 02-67404580;
può anche scrivere a oscar.buratta@ersaf.lombardia.it,
oppure a life@ersaf.lombardia.it.
Risulta utile anche la consultazione del sito Internet www.lifereticnet.it/italiano/home.htm
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Difficoltà |
EE (escursionisti esperti) |
Dislivello |
mt. 330 (var. A) o 1230
(var. B) |
Tempo |
4 h (var. A) o 5 h (var.
B) |
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