DANZE MACABRE
Mai danzare con gli sconosciuti... (leggenda)
Testi a cura di M. Dei Cas
Il tema della danza macabra ha ispirato diverse produzioni pittoriche:
si tratta della rappresentazione della danza dell’uomo con la
morte. Lo troviamo anche in alcune leggende valtellinesi, nella variante
della danza di vivi con figure umane che si rivelano, alla fine, anime
di morti. Eccone due, assai simili.
La prima viene raccontata da Renzo Passerini nel numero di settembre
del 1995 de “’L Gazetin” ed ha come protagonista un
tale soprannominato Pin Colza (cioè Pino Calza, per chi avesse
problemi di interpretazione dialettale). Un tale soprannome potrebbe
far pensare ad un tipo piuttosto mingherlino o pantofolaio, uno, magari,
che, come si dice, non tira mai su le calze, cioè è un
posapiano, un tiratardi, o, peggio ancora, una mezza calzetta, cioè
un tipo mediocre e pusillanime. Niente di tutto ciò: il nostro
eroe era un giovanotto prestante, alto, energico, dinamico, che sprizzava
energia e voglia di vivere da tutti i pori. Perché mai gli fosse
stato affibbiato il soprannome di Colza la leggenda non lo dice, ma
queste cose spesso sono legate ai casi più diversi e disparati:
forse era disordinato e se ne andava in giro con le calze spaiate, o
forse, anche, detestava le calze. Non lo sapremo mai.
Quel
che sappiamo, invece, fu un’avventura che gli capitò una
notte e che lo segnò per sempre. La giornata che la precedette
era iniziata sotto i migliori auspici: da Sacco, all’ingresso
della Val Gerola, dove viveva, egli era, infatti, sceso alla fiera che
si teneva nella piazza S. Antonio di Morbegno, e lì aveva venduto
uno dei suoi migliori vitelli spuntando un ottimo prezzo. Un vero affare,
una cosa che non capita tutti i giorni, e che quindi doveva essere adeguatamente
festeggiata. Quale modo migliore di festeggiarla di una bella bevuta
in un crotto come si deve? Fu quello che fece, la sera: di bicchieri
di quello buono ne mandò giù parecchi, anche troppi, e,
quando venne l’ora di riprendere la via di Sacco, le gambe, anche
se non avevano perso l’energia di sempre, non erano del tutto
ferme, ed il passo non era diritto come di consueto. Poco male: Sacco
non dista molto da Morbegno, e la mulattiera che vi conduce parte proprio
nei pressi della piazza.
Si incamminò, dunque, il nostro Pin Colza, su quella via che
conosceva a memoria, tanto che avrebbe potuto percorrerla anche ad occhi
chiusi. Dopo il primo tratto di salita severa, oltrepassò, accelerando
il passo, la chiesetta di San Carlo, nel cuore del bosco, dove, si diceva,
i viandanti notturni spesso si imbattevano negli spiriti delle anime
defunte, che apparivano sotto forma di fiammelle. Nessuna
fiammella ruppe, però, il buio della notte, e Pin Colza tirò
un sospiro di sollievo. Poco oltre, raggiunse il limite del bosco, là
dove iniziano i prati del pianoro di Campione, la località legata
alla fama della celebre eroina Bona Lombarda. Qui scorse una grande
luce: non poteva trattarsi della luce della luna, era troppo intensa,
come un bagliore. Percorse ancora qualche passo, e vide che si trattava
di un grande fuoco, che ardeva nel mezzo dei prati. Udì, anche,
e la cose era non meno sorprendente, un forte rumore, nel quale si mescolavano
voci, risa e suoni di pianoforte e violino, nel ritmo cadenzato di melodie
ballabili.
Si fermò, osservò meglio: attorno al fuoco vide una gran
folla di persone, con abiti di foggia diversa, dame e cavalieri, notabili
e soldati, contadini ed artigiani, gente di tutte le condizioni sociali.
Una festa, si trattava di una festa danzante, nel cuore della notte
(era, appunto, la mezzanotte precisa). Mai vista una cosa del genere.
Mai viste quelle persone: e dire che il nostro conosceva pressoché
tutte le persone che abitavano in quella zona, visto che ci passava
parecchie volte. La scena non era solo sorprendente, ma anche coinvolgente:
allo stupore, quindi, si sostituì ben presto il desiderio di
entrare in quell’irresistibile clima festaiolo. La
musica sembrava fatta apposta per trascinare al ballo, ed il nostro
giovanotto non stette a pensarci troppo, lanciandosi nelle danze, che
amava non poco. Si unì alla prima donzella che trovò libera,
e cominciò a piroettare al ritmo incalzante di un walzer.
Mise, in quel ballo, tutta la sua energia ed il suo buonumore, trascinando
la compagna quasi a viva forza. Troppa energie, probabilmente, tanto
che la ragazza esclamò: “Va’ piàa, Pin Colza,
che i mort i gàa poca forza”. A quelle parole il giovane
lasciò subito la mano della ragazza, spaventato. L’alcool
e l’euforia non gli avevano annebbiato la coscienza al punto da
non realizzare subito il loro significato.
Fuggì via, spaventato, raggiunse di corsa Sacco, dove si fermò,
trafelato, sotto la casa del parroco, percuotendo energicamente la porta.
Questi si affacciò, insonnolito, alla finestra: “Che c’è,
figliolo, che vuoi a quest’ora di notte?” “Una cosa
tremenda, padre, una cosa da far spavento”. “E cosa mai
sarà successo? Qualcuno sta male? Qualcuno ha bisogno dell’estrema
unzione?” “No, no, il falò, e la gente che danzava,
ma non era gente, erano i morti…” “Eh, dài,
Pin Colza, che ne hai buttato giù un bicchiere di troppo. Vai,
vai a riposare, vedrai che domani ti si schiariranno le idee”.
E rinchiuse le imposte senza dargli modo di replicare.
Al giovane, ancora scosso per quello che aveva visto e, soprattutto,
toccato, non restò che tornarsene a casa. Ma di primo mattino
fu di nuovo all’uscio del parroco: “Padre, padre, venga
con me, che non mi sono sognato le cose.” “Benedetto ragazzo,
non te le sarai sognate, ma te le avrà fatte vedere l’alcool”.
“Non era l’alcool, padre, venga con me, hanno acceso un
grande fuoco, e suonavano, e ballavano, erano le anime dei morti, venga,
ci saranno ancora i segni giù, nei prati di Campione”.
L’anziano prete borbottò, si vestì, uscì
di casa e lo seguì controvoglia, pensando che solo assecondandolo
sarebbe riuscito a calmarlo.
Giunsero al prato del ballo, e il giovane cercò i segni del grande
falò. Nulla. Neppure un misero tizzone annerito. L’erba
era assolutamente intatta. “Eh, qui di fuochi non ne hanno fatti
di certo, stanotte”, disse il parroco guardando con un mezzo sorriso
il giovane che non si raccapezzava e continuava a volgere lo sguardo
qua e là. Ma il sorriso si spense subito, perché, proprio
guardandolo, si accorse di qualcosa che lo lasciò esterefatto:
i capelli, quei capelli neri e corvini che ben conosceva, erano diventati
bianchi. “Oh
Dio benedetto, che è successo ai tuoi capelli?”, domandò,
e si diede da solo, in cuor suo, la risposta: doveva aver visto qualcosa
di tanto terribile da sbiancarlo completamente, anzitempo. Da allora
nelle liturgie inserì sempre una preghiera perché i suoi
parrocchiani fossero preservati dal contatto con quelle anime di morti
che, di sicuro, non potevano essere che anime dell’inferno, e
la storia si tramandò, di generazione in generazione, in quel
di Sacco.
Il Pin Colza, dal canto suo, perse per sempre i suoi bellissimi capelli
corvini, perse interamente la passione per il ballo e, soprattutto,
perse del tutto la voglia di avere di nuovo a che fare con quella mulattiera
che, ancora a distanza di anni, solo a pensarci, gli metteva spavento.
Ecco la seconda storia, assai simile alla prima. L’antefatto,
innanzitutto: sul versante orobico alle spalle del paese di Sirta, in
comune di Forcola (il primo della bassa Valtellina, per chi provenga
da Sondrio), si trova, nel cuore della val Fabiolo, la località
della Sponda, poco al di sopra dei 900 metri, un gruppo di baite sui
prati posti quasi a ridosso del tormentato e selvaggio versante che
scende verso sud dalla cima di Zocca. Da questo versante precipitò,
un tempo lontano, una grande frana. Precipitò in una notte d’estate,
mentre le oscure sponde della valle risuonavano di musiche e canti,
che animavano una spensierata festa danzante. Precipitò proprio
sulle persone festanti, che fecero appena in tempo ad udire l’agghiacciante
rombo dei massi in movimento, prima che questi le seppellissero, senza
lasciare scampo ad alcuno.
Una
tragedia che suscitò un’impressione enorme, anche se qualcuno
cominciò a dire, e questa voce si fece via via più forte,
che non si trattava di un tragico caso, ma di una punizione divina,
piombata sul capo di quegli empi festaioli, che passavano buona parte
delle sere dedicandosi al divertimento piuttosto che al pensiero del
Signore.
Cominciarono poi, negli anni seguenti, ad accadere fatti strani sulla
mulattiera che sale da Sirta a Campo Tartano, passando per la Sponda.
Alle baite dei Bures i viandanti solitari che transitavano a sera fatta
udivano, spesso, soprattutto d’estate, il suono argentino di una
campanella (zampugnìi), simile a quella appesa al collo delle
capre per individuarne la posizione. Ma, nella penombra, non si intravedeva
alcun animale. Il suono sembrava precedere, di poco, il viandante; quando
questi si fermava, allarmato, guardingo, e tendeva l’orecchio,
esso cessava, per ricominciare, poi, poco dopo la ripresa del cammino.
Tutto questo si ripeteva più volte, fino alla Sponda, dove il
tintinnìo cessava. Facile l’interpretazione del misterioso
fenomeno: si trattava di qualche anima senza pace, condannata a ripetere,
in eterno, il tragitto compiuto in vita per l’ultima volta nel
cuore della tragica notte della frana.
Qualche volta, però, accadeva anche di più: fra le baite
della Sponda si scorgevano ombre, figure misteriose che ballavano alla
luce incerta di fiaccole che tenevano in mano, ed al suono di una musica
arcana.
Ma
c’era anche chi a queste storie proprio non voleva credere, e
sorrideva, sornione e beffardo, ogni volta che le sentiva raccontare.
Un tal Beroldo, per esempio, di Campo Tartano: storie da donnicciole,
buone per far paura ai bambinetti, così definiva i racconti che
si tessevano su questo canovaccio nelle lunghe sere d’inverno.
Stanco di sentirle, una sera decise di scendere alla Sponda, per dimostrare
a tutti che lì non accadeva proprio nulla che non fosse più
che spiegabile alla luce di cause perfettamente naturali. Da Campo alla
Sponda il tragitto è abbastanza breve, e quando vi giunse, all’inizio
non notò nulla di strano.
Si sedette, su uno dei massi che fiancheggiano per un buon tratto la
mulattiera, ed attese che la notte si facesse più fonda. Ed ecco,
sommessa, prima, più forte, poi, una musica suadente, misteriosa.
Ecco le prime luci, luci di fiaccole, muoversi ritmicamente, ecco figure
di uomini e donne danzare nel cuore della notte. Credendo che fosse
tutto uno scherzo,
Beroldo decise di stare al gioco, e si avvicinò ad una delle
figure, per unirsi nel ballo. Si lanciò in qualche piroetta,
perché era anche un vigoroso ballerino, oltre che un inguaribile
scettico, trascinando quella che, nella penombra, gli pareva un’avvenente
ragazza. Questa, dapprima, lo seguì nel ballo, ma, ben presto,
sembrò faticare sempre più a reggere il ritmo, tanto da
uscirsene con questa esclamazione: “O pian Beroldo che i mort
i gan poca forza.”
Se
la diede a gambe, il nostro eroe, e raggiunse in men che non si dica,
con il cuore in gola, la sua casa. Raccontò, il giorno dopo,
la paurosa avventura, fra lo sbalordimento di chi lo conosceva bene
e sapeva che non era tipo da impressionarsi per cose di poco conto.
Da allora gli scettici furono confutati e gli abitanti di Campo, presi
da gran paura, smisero di uscire dopo il tramonto, standosene chiusi
a chiave in casa fino al mattino.
Chiudiamo con una terza storia, un po’ diversa dalle precedenti,
ma centrata sul medesimo tema. Questa storia ci porta sul versante opposto
della bassa Valtellina, e precisamente a Cadelpicco, fra Dazio e Caspano,
nella parte orientale della luminosa Costiera dei Cech.
Una sera d’estate di molti anni fa vi si teneva una delle classiche
sagre paesane che allietano gli animi di tutti, fra musiche, canti e
danze. Si trattava di una di quelle occasioni che nessun giovane del
paese perdeva per corteggiare le ragazze più belle. E uno di
questi giovani, proprio quella sera, adocchiò una ragazza mai
vista, una forestiera, come si dice. Una ragazza molto bella, incantevole
nel suo elegante abito bianco e nei suoi tratti pallidi ed un po’
tristi. La invitò a ballare, ballò con lei tutta la sera.
Se ne innamorò.
Quando
lei gli disse che era giunta l’ora di tornare a casa, si fece
ardito e le chiese dove abitasse, di dove fosse. Lei lo guardò,
con tutta la profondità dei suoi occhi nerissimi nei quali il
giovane sprofondò come in un pozzo di malinconia. Gli disse solo:
“Se lo vuoi sapere, seguimi: vedrai da te stesso”. Non disse
altro, ed il giovane non chiese altro, ma la seguì. Uscirono
dal paese, percorsero un breve tratto. Dove andava l’incantevole
fanciulla? La risposta venne ben presto, perché si fermò
proprio sulla soglia del cimitero, volse gli occhi un’ultima volta
verso il giovane, e svanì dietro il muro di cinta.
Solo l’incerta luce della luna fu testimone dello sgomento che
prese il ragazzo, il cui cuore, per qualche istante, si fermò.
Poi riprese a battere, perché non era ancora giunto, per lui,
il momento di varcare, insieme all’amata, l’arcano confine
fra vita e morte.