GLI ESEMPI
Storie da raccontare a bambini disobbedienti
Testi a cura di M. Dei Cas
Fra le storie che si raccontavano la sera, quando ci si ritrovava tutti
insieme, la sera, nella stalla a “fa filò”, o “fa
filagna”, ve n’erano molte, dette “esempi”,
che avevano chiaramente lo scopo di offrire un insegnamento ai bambini,
puntando sulla loro naturale suggestionabilità e sulla leva psicologica
della paura. Alcune hanno un lieto fine, altre terminano con una punizione
terribile, ma il canovaccio è costante: vi è un bambino
disubbidiente, che trasgredisce le regole cui dovrebbe obbedire, e per
questo motivo finisce per ritrovarsi in una situazione di pericolo,
viene rapito, viene portato via. Morale della favola: i bambini cattivi
stiano attenti, perché la punizione è dietro l’angolo.
Ne proponiamo alcune, a titolo esemplificativo.
La prima, che si ritrova, con qualche variante, nella tradizione di
diversi paesi, è costruita come un climax, cioè un crescendo
di tensione e paura. Ben raccontata, suscita un sicuro spavento. Ne
è protagonista Giuanìn, che, a dispetto del nome simpatico,
è il tipico bambino cattivo: disobbediente, scapestrato, irriverente,
cocciuto, ha tutte le qualità negative che i genitori non sopportano
nei figli. Come per tutti i cattivi, però, arriva anche per lui
il momento del rendiconto e della punizione. Una punizione terribile,
che sopraggiunge, inattesa una notte.
E’ mezzanotte suonata e, forse présago di quanto l’attende,
il bambino, solo nella sua stanza, non riesce a chiudere occhio. All’improvviso,
il silenzio della notte, un silenzio profondo come il buio che avvolge
la stanza, è rotto dal rumore di passi sulla scala che conduce
all’uscio della camera. E, con i passi, una voce, cavernosa: “Giuanìn,
sono sul primo scalino”; una pausa di qualche istante, nel quale
il bambino sente il cuore battere sempre più forte, e poi ancora
“Giuanìn, sono sul secondo scalino,… Giuanìn,
sono sul terzo scalino”, e così per tutti e dodici gli
scalini. Il
bambino trattiene il fiato per il terrore. Silenzio. Poi la voce si
fa ancora sentire, più vicina e più minacciosa: “Giuanìn,
cerco la porta”…Giuanìn, l’ho trovata,…Giuanìn,
non trovo la chiave…Giuanìn, l’ho trovata”.
Il bambino, rannicchiato in fondo al letto, con le coperte sopra il
capo, trema di terrore, non trova neppure la forza per gridare. Sul
quel piano ci sono diverse camere e, dopo qualche interminabile istante,
la voce riprende: “Giunìn, non trovo la camera…Giuanìn,
l’ho trovata”.
Il bambino si sente perso, vorrebbe farsi sempre più piccolo,
sparire fra le coperte che lo avvolgono. Silenzio. Dov’è
la voce? Chi è quella voce? Cosa accade? Qualche istante, poi
la voce, paurosamente vicina, fa sussultare di nuovo il bambino: “Giuanìn,
non trovo il letto… Giuanìn, l’ho trovato”.
Un grido si strozza in gola al bambino, mentre la voce, ormai vicinissima,
sembra materializzarsi in una presenza malefica: “Giuanìn,
non ti trovo… Giuanìn, ti ho trovato”. L’urlo,
che sembrava non voler più venire fuori, esce, improvviso, come
un ultimo disperato tentativo di difesa. Lo ode la madre, che dorme
in una camera vicina, e si precipita fuori, accorrendo per vedere cosa
succede. Ciò che vede è, però, solo un letto disfatto
e vuoto. Sconvolta, corre dal parroco, raccontando, trafelata, l’accaduto.
Il sacerdote intuisce di cosa si tratta, indovina la presenza del Maligno
e decide, come unico modo per cercare di scongiurare il peggio, una
processione sul monte che sovrasta il paese, alla volta di un burrone
dal quale, si diceva, il Diavolo veniva fuori per portarsi via le anime
malvagie. La processione si incammina, mesta e trepidante, giungendo
nei pressi del burrone. Qui si fa silenzio, e dal silenzio emerge un
pianto, dirotto ed inconsolabile. Affacciandosi sul ciglio del dirupo,
i fedeli scorgono, con raccapriccio, una fascia di rovi in fiamme, e,
fra le fiamme, Giuanìn, lacerato dalle spine dei rovi, insanguinato,
avvolto dalle spire del fuoco divorante. Troppo tardi, ormai: il bambino
paga, in modo esemplare ed atroce, tutte le disobbedienze. Sua
madre è distrutta dal dolore e le altre madri, stringendosi appresso
i piccoli, commentano: “Visto cosa succede a non dar retta agli
insegnamenti dei genitori?”
Questo esempio è stato raccontato dal nonno di Florindo Bombardieri,
classe 1896, di Chiuro, e raccolto dall’insegnante Armida Bombardieri,
ma racconti molto simili si potrebbero trovare in altri paesi.
Trasportiamoci, ora, sul versante orobico, più ad ovest, in Val
di Tartano. Anche qui i bambini hanno bisogno di qualche racconto su
cui meditare. Anche a Campo Tartano, infatti, ci sono bambini cattivi.
Uno, in particolare, non voleva mai dire le preghiere, e neppure fare
il segno della croce, nonostante la madre lo ammonisse ricordandogli
che i bambini come lui se li portava via il diavolo.
Un giorno la minaccia diventò realtà: mentre la madre,
infatti, era intenta a mungere le mucche, udì il grido del figlio,
che la supplicava di accorrere, perché il diavolo lo stava prendendo.
Allora lasciò tutto, uscì dalla stalla e corse verso l’uscio
di casa, proprio mentre stava uscendo il diavolo, che si era preso il
bambino e se lo stava portando via. Non si perse, però, d’animo:
sapeva bene, perché l’aveva sentito tante volte, fin da
bambina, al catechismo, che il segno della croce può mettere
in fuga il diavolo, ed allora gridò al figlio: “Fai il
segno della croce, fai il segno della croce!”.
Questa volta il bambino non si fece pregare, portò la mano alla
fronte e si fece il segno della croce. Il diavolo lo lasciò immediatamente,
e scomparve in un istante, così come era apparso. La madre potè,
quindi, riabbracciarlo, e dal quel giorno non ebbe più motivo
di lamentarsi di lui, perché non dimenticò più
di dire le preghiere, come ogni buon bambino deve fare.
Sempre
a Campo Tartano viveva un altro bambino, di nome Stefano, neppure lui
campione di obbedienza. I suoi genitori gli avevano detto più
volte di non andare con gli estranei, ma, come accade qualche volta,
queste parole gli erano entrate da un orecchio ed uscite dall’altro.
Una sera la madre gli chiese di andare a prendere il sale in paese,
raccomandandogli di fare presto. Abitavano nel bosco vicino al paese,
e si stava facendo notte.
Il bambino partì subito, ed incontrò, strada facendo,
un signore, mai visto, che gli chiese, gentilmente, dove fosse diretto.
“Vado in paese a prendere il sale”, rispose Stefano, al
che l’uomo, sempre molto gentile, lo invitò a seguirlo
a casa sua, promettendo che gli avrebbe dato lui il sale. Il bambino,
incurante degli ammonimenti dei genitori, lo seguì, ma, appena
giunto alla casa, scoprì che non si trattava di un gentile signore,
bensì di un malvagio, che lo rinchiuse nel porcile, insieme ai
maiali.
Stefano pianse, gridò, strepitò, ma nessuno poteva udirlo.
Resosi conto che si doveva arrangiare da solo, cominciò a pensare
a come fuggire, perché aveva capito che avrebbe rischiato, altrimenti,
di fare la fine dei maiali. Scorse, allora, in un angolo, un chiodo,
e, lì vicino, un sasso. Usando il sasso per battere il chiodo,
cominciò, con pazienza, a scalfire la parete di legno del porcile,
aprendovi, alla fine, un varco sufficiente per sgusciar fuori e fuggire.
Fu fortunato, perché riuscì a ritrovare la strada di casa.
Quanto vi giunse, trovò i suoi genitori angosciati, che lo riabbracciarono
piangendo di gioia. Udito il suo racconto, la madre riuscì a
dire, fra i singhiozzi: “Hai visto quel che capita a non dar retta
ai genitori ed a seguire gli sconosciuti?”
Questi ultimi due esempi sono stati raccolti dalla Scuola Elementare
di Campo Tartano e riportati nel volume “C’era una volta”,
curato dalla Scuola Elementare di Prata Camportaccio ed edito nel 1992.