IL PAESE DEL PIANTO
Come e perchè Piuro, nel 1618, venne sepolta (storia)
Testi a cura di M. Dei Cas
Il paese del pianto è Piuro, antico ed illustre borgo posto allo
sbocco della Val Bregaglia, appena prima di Chiavenna. Secondo il Guler
von Weineck, che ebbe modo di visitarla nel 1616, infatti, il suo nome
deriva dal verbo latino “plorare”, che significa “piangere”.
Ecco cosa scrive nel resoconto dei suoi viaggi in Valtellina e Valchiavenna,
intitolato “Raetia”: “ Piuro è un bellissimo
borgo, che si potrebbe benissimo paragonare a una cittadina per i suoi
architettonici palagi, per i campanili, le chiese ed altre costruzioni,
se fosse anche cinta di mura. Il suo nome deriva dalla parola latina
“plorare”, ossia piangere, a cagione di un lacrimevole disastro
che ivi accadde in antico. Narra infatti una vecchia leggenda che nei
tempi andati questo borgo sorgesse più addentro nella stretta
gola della valle, dove una tremenda ed improvvisa piena del fiume lo
travolse, distruggendolo totalmente. In seguito i superstiti trasferirono
le loro dimore nel luogo dove sorgono oggidì, e mutarono pure
al paese l’antico nome di Belforte in quello attuale: ad eterna
memoria della passata sciagura. Piuro è il capoluogo del territorio
circostante, donde vengono gli abitatori per ricevere giustizia…Gli
abitanti sono gente operosa che attende per lo più ai traffici;
e poche piazze commerciali ci sono in Europa dove essi non esercitino
qualche industria; perciò hanno guadagnato grande ricchezza.
Ma la sventura potrebbe di bel nuovo abbattersi su questo paese, prostrandolo
una seconda volta”.
Il von Weineck si riferisce, nelle sue note, ad un primo disastro che
si compì, probabilmente, molti secoli prima, forse nell’VIII
secolo d. C. A Piuro non seppe delle lodi del viaggiatore di lingua
tedesca, e neppure ebbero modo di inquietarsi del suo monito finale.
E neppure se avessero potuto leggere quelle parole, con tutta probabilità,
si sarebbero preoccupati: la fama del von Weineck non era quella di
profeta. Eppure, due anni dopo, nel 1618, in un piovoso scorcio d’estate,
accadde qualcosa di incredibile, come se un destino inscritto nella
denominazione di paese del pianto si compisse inesorabilmente.
Il mese di agosto volgeva al termine, quando una decina di giorni di
pioggia ininterrotta parvero porre bruscamente fine all’estate.
Una pioggia torrenziale, insistente, preoccupante. I montanari sanno
che piogge violente e concentrate posso riservare amare sorprese: la
Mera sarebbe potuta straripare di nuovo, come quando si portò
via l’antica Belforte, oppure dal monte sarebbero potuti scendere
smottamenti e frane. Ma poi la fitta coltre di nubi cominciò
a diradarsi, il cielo finalmente si aprì, mostrando un sole ancora
caldo, in quell’inizio di settembre. Le apprensioni rientrarono,
si ringraziò il cielo perché nulla di grave era accaduto,
nonostante la Mera, con le sue acque limacciose e turbolente, si precipitasse
ancora verso Chiavenna con una violenza impressionante. Altri segni
avrebbero dovuto indurre a non ritenere cessato il pericolo: alcune
crepe inquietanti si erano aperte sul fronte montuoso meridionale, in
diversi punti le piante avevano assunto un’inclinazione anomala,
le api, con comportamento inspiegabile, erano sciamate ad est, verso
Villa di Chiavenna, le bestie davano segni insistenti di inquietudine.
Si trattò di segni che non furono, però, colti, ed allora
accadde l’imponderabile. Un intero pezzo di monte, il monte Conto,
venne giù, una massa immensa di materiale calcolabile nell’ordine
dei milioni di metri cubi. Era il 4 settembre, secondo il calendario
gregoriano (ma, secondo il calendario imposto a Piuro dal dominio protestante
dei Grigioni, che, in opposizione a Roma, non avevano accettato la riforma
gregoriana, si era ancora al 25 agosto).
Fu
un disastro immane, la cui notizia corse per l’Europa, quell’Europa
nelle cui piazze commerciali, come notava il von Weineck, erano ben
conosciuti i mercanti di quel borgo sperduto nella bassa Val Bregaglia.
La notizia suscitò ovunque grande impressione e commozione, e
la frana che aveva sepolto Piuro venne raffigurata anche in diverse
stampe. Potremmo tranquillamente paragonare l’impatto emotivo
di quel che accadde a ciò che, in tempi assai più vicini
a noi, è accaduto con la frana del monte Coppetto, in val Pola,
durante la tragica alluvione del luglio 1987. Si salvarono le frazioni
di Prosto, Cranna, S. Croce, ma nel centro del paese un migliaio di
persone rimasero sepolte sotto l’enorme frana. Vennero, poi, iniziati
gli scavi per cercare di recuperare qualche segno del paese sepolto,
ed ancora oggi l’area di questi scavi è ben visibile: si
tratta della zona detta di Ruina, segnalata da cartelli ben visibili,
che si incontrano, sulla destra (per chi proviene da Chiavenna), mentre
si attraversa il paese.
La cultura popolare ben poco sa del fatale concorso di cause naturali,
dell’instabilità geologica di versanti che, magari senza
dare segno di sé per secoli, può rovinosamente manifestarsi
in pochi minuti: la cultura popolare associa il grande disastro naturale
ad un’idea di giustizia cosmica, o divina, che si serve anche
degli eventi naturali per punire una colpa. Già, ma quale colpa?
Una ben nota leggenda, nata per spiegare la tragedia della Piuro sepolta,
parla di una colpa relativa ad una delle più antiche leggi di
umanità, conosciuta presso tutti i popoli, una legge non scritta
che prescrive di offrire asilo allo straniero, di ospitare il viandante,
di soccorrere il mendicante. Il tema della leggenda è semplice
e classico: la ricchezza aveva indurito molti cuori, fra gli abitanti
di Piuro, rendendoli insensibili al bisogno dei poveri e dei mendicanti,
una colpa che doveva essere pagata nel modo più terribile.
Non fu la pioggia torrenziale, allora, ma un mendicante, capitato la
sera del 3 settembre 1618 a Piuro, la causa vera della frana distruttrice.
Questo
mendicante aveva bussato inutilmente alla porta delle famiglie più
ricche del paese: nessuno aveva avuto compassione per la sua povera
e stanca figura. Solo presso una famiglia umile e misera trovò
ospitalità. Cenò, quindi, nell’umile casa dei contadini,
O meglio, condivise la loro profonda miseria e la loro fame. Non c’era,
infatti, da mangiare a sufficienza per le numerose bocche da sfamare,
ed i bambini non si saziavano del poco che veniva dato loro come cena.
La madre, allora, mestamente, metteva sul fuoco una pentola d’acqua,
aggiungendo dei sassi ed invitando i figli a pazientare: alla fine anche
quelli, cotti, si sarebbero potuti mangiare. I bambini attendevano,
affamati, finché il sonno li vinceva, e la madre poteva gettar
via i sassi di quel triste inganno. Questo vide il mendicante, e fu
lui ad essere preso dalla compassione. Non si trattava, in realtà,
di un mendicante qualunque. Era una figura che veniva da Dio, e quella
sera accadde un prodigio che lo attestava: la madre, accingendosi a
gettar va i sassi, si accorse, incredula, che questi si erano tramutati
in profumate patate, una manna per la povera famiglia contadina. Svegliò,
ebbra di gioia, i bambini ed il mendicante, che si era ritirato con
discrezione, e servì le patate fumanti a tutti, che ne mangiarono
con gusto, a sazietà. Il mendicante ringraziò e disse
che ora poteva andare.
Ma prima di lasciare la casa, pronunciò alcune frasi misteriose:
quella notte, disse, si sarebbero uditi rumori violenti ed impressionanti,
ma per nessun motivo gli abitanti della casa avrebbero dovuto affacciarsi
alla finestra per guardare o, peggio ancora, uscire all’aperto.
Poi scivolò via, nel cuore della notte, e, dopo non molto tempo,
accadde proprio quel che egli aveva detto: un boato sordo ed immane
scosse le mura della casa. Tutti balzarono in piedi, e la madre non
resistette alla curiosità: non
guardò dalla finestra, come le era stato raccomandato, ma almeno
un’occhiata dal buco della serratura volle gettarla. Vide solo
per pochi istanti la frana che si precipitava su Piuro: poi non vide
più nulla, perse la vista. Le case dei ricchi furono sepolte,
ma la casa che aveva dato ospitalità al viandante rimase intatta.
Una seconda versione della leggenda racconta che non fu la madre, ma
il padre a non resistere alla curiosità: guardò alla finestra
e rimase cieco.
Piuro fu davvero, allora, il paese del pianto, e tale, forse, appare
ancora oggi a chi visiti la zona degli scavi, circa duecento metri oltre
Borgonuovo: qui è venuto alla luce un tratto di strada, con cinque
scheletri, resti delle mura di abitazioni ed il pavimento di un’officina
di tornitura.