IL PAESE DELLE STREGHE

Sostila, dove le streghe si facevano belle sul far della sera (leggenda)
Testi a cura di M. Dei Cas

La mulattiera della val Fabiolo. Foto M. Dei Cas Esistono pozzi della streghe, case delle streghe, massi e radure delle streghe, ma lo sapevate che esiste anche un paese cui è legata la poco invidiabile nomea di paese delle streghe? Si tratta di Sostila, in val Fabiolo, uno dei centri più suggestivi e caratteristici del versante orobico, pulsante di vita contadina ancora fino a qualche decennio fa (ne è riprova la presenza, fino al 1958, di una scuola elementare, giustificata anche dalla collocazione dell’abitato, nel cuore di una valle angusta e nascosta, percorsa solo da una mulattiera che parte da Sirta, l’ultimo paese della bassa Valtellina che si incontra seguendo il versante orobico in direzione di Sondrio).
Sostila è collocata ad una quota di poco superiore agli 800 metri sul fianco di media montagna che costituisce il lato occidentale della val Fabiolo, prima che questa assuma un andamento ad “S”, con una doppia curva, che precede lo sbocco terminale, in corrispondenza di un’ampia sella erbosa, nella più ampia Val di Tartano.
Curioso paese in una curiosa valle, una valle profonda ed ombrosa, l’unica di una certa dimensione a non raggiungere, a sud, la testata della catena orobica, una valle che deve il suo solco incassato all’antichissimo corso del torrente Tartano, che per questa via raggiungeva il fondovalle, prima di trovare una nuova e più diretta via, l’attuale, in un’epoca nella quale non vi erano ancora occhi d’uomo che potessero essere i privilegiati testimoni di questa piccola rivoluzione geologica.
Una valle magica: dalla piana di Ardenno se ne scorge solo l’impressionante e stretta forra terminale, e non si immaginerebbe mai che essa celi anche spazi sufficienti per l’insediamento umano; e la prima magia è proprio questa, percorrere la bella mulattiera che parte proprio alle spalle della chiesa di S. Giuseppe della Sirta e trovare, superata la soglia d’ingresso, un fondovalle e dei versanti che hanno ospitato per secoli la vita umana, in un sorprendente equilibrio con le forze di una natura incombente rese visibili da roccioni strapiombanti, da ripidi declivi e da aspri valloni. Una magia per l’uomo ed una magia contro l’uomo, quest’ultima incarnata dalla più tipica personificazione del male, la strìa (strega). Qui era di casa, dicono, qui trovava ampi spazi per i suoi convegni diabolici, per il sabba, per le attività malefiche a danno di raccolti, animali e uomini. Gli abitanti di Sostila non erano molto contenti di questa diceria, ma proprio questo paese pare fosse abitato da un certo numero di streghe.
Si raccontano, al proposito, alcune storie. Una ha protagonista un bel giovane di Sostila, che aveva adocchiato una famiglia costituita da una vedova e da tre figlie graziose, che viveva alla contrada dell’Era. Si trattava di gente che se ne stava sul suo, come si suol dire, viveva appartata, non sembrava partecipe della vita del paese: non le si vedeva mai né in chiesa, né al lavatoio posto appena prima dell’ingresso del paese, cioè nei luoghi in cui si apprende quel che la gente dovrebbe fare e quel che effettivamente fa. Di loro non si diceva bene, ma questo accade spesso di persone un po’ originali, che si discostano dal modo di fare dei più. Questo il giovane lo sapeva, per cui non si preoccupava affatto delle dicerie, anzi, vedeva nella riservatezza della singolare famiglia una garanzia di particolare virtù.
Così, gradualmente, cominciò a frequentare la loro casa. “Si parlava”, come dicevano e dicono ancora di persone che sono seriamente intenzionate a legarsi sentimentalmente, con una delle tre figlie, la più giovane e graziosa, ma in realtà era deciso, in cuor suo, a non abbandonare la possibilità di poter fare la corte anche alle sorelle, se la sua prima scelta gli avesse opposto un rifiuto. Tutto nei modi e nei tempi dovuti, perché allora non ci si poteva dichiarare così, in quattro e quattr’otto, come si fa oggi. “Ogni cosa a suo tempo”: un antico proverbio valtellinese che si applicava soprattutto alle questioni di cuore.
Ma il giovane, a dispetto dell’impazienza che dicono essere propria della sua età, sapeva attendere, e con pazienza costruiva una delicata trama di colloqui cauti e solo timidamente confidenziali con la ragazza che gli interessava, con le sorelle, che non la lasciavano, peraltro, mai sola, e con la stessa madre, che raramente mancava. Colloqui nell’orto della casa delle sorelle, qualche volta anche dentro la casa, la cui fresca ombra ristoratrice era particolarmente gradita nei pomeriggi estivi arroventati dal sole, che anche a questa quota si faceva sentire, superato l’ostacolo invernale del Culmine di Dazio. Qualche chiacchiera capitava di farla anche alla sera, quando c’era più tempo, perché il lavoro nella campagna era terminato ed il giovane aveva anche finito di “dà da regula a li besti” cioè di governare bestie, dando loro da mangiare e ripulendo la stalla.
La cosa andava avanti, senza nulla di particolarmente notabile. Se non fosse per un dettaglio, all’inizio insignificante ai suoi occhi, poi sempre più enigmatico: le giovani e la madre sembravano accettare di buon grado la sua compagnia, tutti i giorni, tranne che di giovedì. In quel giorno proprio non c’erano. O se c’erano non si facevano trovare. Quando gli capitava di passare, perché era sulla strada, o perché allungava un po’ la strada, dalla loro casa, il giovane non mancava di dare una voce. Senza esito. Può capitare. Ma perché sempre di giovedì? Questo si chiedeva, e la domanda era diventata un rovello. Avrebbe potuto chiederlo loro direttamente, ma temeva di passare per persona indiscreta agli occhi di quelle donne che avevano eretto la discrezione a sistema di vita.
Decise, allora, di salvare capra e cavoli, cioè di soddisfare la sua curiosità senza porre domande inopportune. Così, un pomeriggio d’inverno, periodo nel quale le incombenze legate al lavoro della terra si diradano, decise di risolvere il mistero affidandosi ai suoi stessi occhi: varcò il cancelletto che delimitava l’orto della casa e si mise a spiare da una finestra. Il sole non c’era già più, era scomparso dietro il Culmine di Dazio, l’aria si era fatta pungente, ma il giovane rimase fermo, ad osservare: all’interno non si vedeva nessuno, però il focolare era acceso, e qualcuno doveva pur esserci. Attese, e la sua pazienza fu ripagata: nel volgere di mezzora circa, ecco apparire la prima sorella, la più giovane, e poi le altre due, ed infine la madre. Tutte sembravano in preda ad una frenetica eccitazione. Loro, di solito così posate e composte, avevano dipinta in volto quell’impazienza che riconosci in ogni bambino del mondo la vigilia di Natale.
Poi, ecco capitare qualcosa che lo lasciò senza fiato. Con delicatezza, ciascuna delle quattro donne cominciò a torcersi il collo ed il capo. La testa girava in modo innaturale, e compì un giro completo una, due, tre volte, prima di staccarsi dal busto. Rimase, scena raccapricciante ed incredibile, il busto senza testa, ma non senza vita, un busto dal quale si staccavano due braccia che terminavano in due mani che, con cura, afferravano la testa staccata. La testa, a sua volta, non aveva perso la sua consueta espressione, solo, sembrava molto concentrata, compresa in quel che stava per accadere.
Cosa stava accadendo, in effetti? Il giovane ebbe modo di capirlo subito. Molto semplicemente, ma si fa per dire, le donne si stavano facendo belle e dedicavano le loro cure ai capelli, passandosi a turno una spazzola, con la quale se li rassettavano ed acconciavano con grande attenzione. Se non fosse stata orripilante, la scena sarebbe parsa perfino comica: gli occhi di ciascuna testa, che una delle mani teneva saldamente, seguivano con attenzione i movimenti dell’altra mano, che metteva in piega i capelli. Quando, alla fine, questi ebbero assunto la foggia desiderata, la spazzola fu riposta ed entrambe le mani rimisero capo e collo sul busto, avvitandoli in senso contrario una, due, tre volte. Il capo si diede uno scrollone, e tutto tornò come prima. Alla fine tutte e quattro terminarono il macabro maquillage, ed era già sera fatta: suonavano, dal campanile della chiesetta della Madonna della Neve, i rintocchi dell’Ave Maria, che invitano la gente a rivolgere una preghiera al cielo ed a ritirarsi nelle case.
Per le quattro, invece, era giunto il momento di lasciarla, la casa: si diressero al camino, nel quale il fuoco si era spento, ma ancora ardeva la brace, e si infilarono nella cappa, sparendo in breve tempo dalla vista del giovane, che aveva assistito per tutto il tempo senza muovere un muscolo.
Questi, allora, si riscosse. Aveva compreso tutto. Le quattro altri non erano che streghe, e si sa che è proprio al rintocco della campana della sera che questi esseri malvagi si levano in volo per recarsi ai loro malefici raduni o insidiare chi si attarda fuori casa. Le streghe dell’Era se ne erano volate, probabilmente, sulla sommità piana del Crap del Mezzodì, appena sopra Sostìla, oppure nei boschi del Culmine di Dazio (allora non c’era ancora, sulla sua sommità, la grande croce che ora tiene lontane le forze del male). Si pentì di non aver dato retta alle dicerie della gente, e da quel giorno evitò accuratamente di passare anche solo nei paraggi della casa maledetta.
Fin qui la leggenda. Ma voi non lasciatevi impressionare: Sostila merita bene di essere visitata, e se proprio non sapete vincere il timore di incontri indesiderati, considerate che anche le streghe, se mai ci sono state, oggidì dimorano in più confortevoli abitazioni, e, non avendo saputo resistere alle lusinghe della civiltà, sono da un pezzo scese al piano, dove trovano, fra gli altri agi, parrucchiere che acconciano nel modo migliore i loro capelli senza che debbano staccarsi il capo dal busto.

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