IL PUNT DE LA SORT
Fra Val Gerola e dosso di Bema (racconto)
Testi a cura di M. Dei Cas
“Quand
el suna l’Ave Maria quiì che de fö ed diavul glia
porta via”, dicevano in Val Gerola: quando suona l’Ave Maria,
quelli che sono fuori casa il diavolo se li porta via. Un modo di dire
che assicurava il rientro, soprattutto nelle fredde serate d’inverno,
dei bambini più riottosi.
Già, ma il diavolo, che si porta via i disobbedienti, da dove
viene? Da un luogo oscuro e pauroso, che sembra l’immagine stessa
dell’inferno, il fondo della valle, dove le rocce strapiombano
sul letto del torrente, in quello che viene, appunto, detto un “orrido”.
Un luogo che, però, non può essere del tutto evitato dagli
uomini, perché è anche un passaggio forzato per chi debba
transitare dal lungo dosso di Bema, che separa la valle del Bitto di
Albaredo da quella di Gerola, alla Val Gerola e da qui al fondovalle,
evitando percorsi troppo lunghi.
Ed è proprio nel punto in cui i due versanti si avvicinano maggiormente
che questo passaggio avveniva, su un ponte rudimentale costituito da
tronchi gettato dall’uno all’altro sperone di roccia. Un
transito insidioso, dunque, soprattutto in cattive condizioni di tempo,
un transito il cui esito era legato all’imperscrutabile destino:
di qui, probabilmente, il nome del ponte, Punt de la Sort, Ponte della
Sorte. Nel 1820 iniziò la costruzione di un più robusto
ed affidabile ponte in pietra, ed ora il transito dall’uno all’altro
versante è assai più sicuro. Non
ha perso, però, il suo alone di mistero, che si è addirittura
infittito, perché in quel medesimo Ottocento la prova della veridicità
della credenza che lega questi luoghi al diavolo parve offerta dal racconto
di una figura del tutto degna di fede.
Si trattava di don Carlo Passerini, nativo di Arzo, parroco di Sacco
dal 1826 al 1873, ricordato, nella lapide cimiteriale, come “pio
pastore e caritatevole”. Nel cuore di una calda estate questi
venne invitato dalla vicina parrocchia di Bema per celebrare la festa
di san Rocco. Accolse di buon grado l’invito, e scese da Sacco
al Dosso, e da qui al ponte sul Bitto, per poi risalire, sicuro, il
dosso di Bema, fino al paese. Vi giunse di buon mattino, per dar modo
ai fedeli che intendessero onorare degnamente il santo di confessarsi.
Concelebrò, poi, nella solenne Santa Messa, seguita dalla processione
rituale e da un festoso banchetto. Si trattenne anche per i Vespri,
prima di rimettersi sulla via del ritorno alla propria parrocchia, intorno
alle quattro del pomeriggio. Era stata una giornata luminosa e serena,
senza una nube in cielo.
Ma, d’improvviso, il tempo cambiò: prima ancora che don
Carlo giungesse in vista del ponte, il cielo si rabbuiò, coperto
da densi nuvoloni che non promettevano nulla di buono. In un batter
d’occhio si scatenò una violenta tempesta, con lampi che
squarciavano come lame la semioscurità nel cuore della valle
e tuoni che sembravano scuoterne i baluardi rocciosi. C’era di
che aver paura, ma la paura si mutò in sgomento quando il sacerdote,
giunto in fondo alla forra, vide che il ponte non c’era più.
Pensò che fosse stato travolto dalle acque del Bitto che si era
ingrossato come mai prima s’era visto.
Restò
fermo qualche attimo, smarrito, il tempo sufficiente perché apparisse
davanti ai suoi occhi increduli, improvviso come il fulmine che l’aveva
preceduto, un personaggio a dir poco singolare, vestito con grande eleganza,
che gli parlò con estrema calma ed affabilità. “Se
vuoi, posso farti passare in tutta sicurezza sull’altro lato della
valle, disse, a patto che mi riveli il nome della fedele più
giovane che stamane hai confessato”. Bastò un cenno della
sua mano perché fra le due sponde si stendesse un nuovo ponte.
Non ci volle molto al sacerdote per comprendere che, dietro quell’apparenza
così distinta e rassicurante, si nascondeva il Maligno: una richiesta
del genere non poteva che celare l’intento di condurre a dannazione
un’anima innocente. Gli venne, allora, rapida come le saette che
non avevano cessato di solcare l’aria, un’idea: “Lo
farò, rispose, ma solo dopo che tu avrai nascosto alla mia vista
il fiume in piena, perché altrimenti non avrò mai il coraggio
di attraversare”. Il distinto signore non batté ciglio,
e, con un nuovo cenno, fece alzare una densa foschia, che nascose ben
presto al sacerdote la vista del furore delle acque.
La nebbia, sempre più fitta, avvolse interamente il luogo: non
si vedeva, quasi, ad un palmo dal naso. Era il momento che don Carlo
attendeva: conosceva a memoria quei luoghi, ed approfittò della
visibilità quasi azzerata per correre oltre il ponte, tracciare
un marcato segno della croce sul primo tratto del sentiero per Rasura
e cominciare a risalirlo, correndo con tutto il fiato di cui disponeva
sul ripido versante della Val Gerola. La
nebbia, però, non tardò a diradarsi, ed l’enigmatico
signore si accorse di essere stato gabbato. Abbandonò, allora,
le finte sembianze e si mostrò per quel che era, il diavolo,
mettendosi, a sua volta, a correre per prendersi la sua vendetta su
quell’impudente sacerdote. La sua corsa, però, fu subito
frenata dal segno della croce, quel segno di fronte al quale non poteva
far altro che arretrare, impotente. La sua rabbia, allora, si convertì
in una maledizione, che don Carlò, qualche decina di metri più
in altro, ebbe modo di udire: “Mi hai ingannato, ma dopo la tua
morte questa montagna franerà”.
Fu per buona sorte o per prontezza d’ingegno che il sacerdotè
poté scampare al demonio? Forse neppure lui avrebbe potuto dirlo.
Quel che è certo è che, anche a distanza di parecchio
tempo da quell’incontro tremendo, don Carlo amava chiudere il
suo racconto con una battuta di spirito che ne stemperava la tensione:
“poor Bemìn, se möri mi!”, cioè “poveri
abitanti di Bema, se muoio io”. Si dovette attendere, però,
oltre un secolo dopo la sua morte perché un movimento franoso
interessasse, nel 1980, questo versante. Forse la grande frana annunciata
dal demonio deve ancora venire.
Per gli escursionisti
Vogliamo sfidare, a nostra volta, la sorte e visitare i luoghi legati
a questo suggestivo racconto? Imbocchiamo, allora, la statale 405 della
Val Gerola, lasciando la ss 38 dello Stelvio, sulla sinistra, all’ultimo
semaforo all’uscita di Morbegno (per chi proceda in direzione
di Milano), fino a raggiungere, dopo 7 km., il primo paese della valle,
Sacco. Svoltiamo all’altezza della strada che si stacca, sulla
destra, per salire in paese, e parcheggiamo l’automobile. Tornati
sulla statale 405, imbocchiamo subito la stradina (la strada “del
Picc”) che se ne stacca sulla sinistra e, correndo più
a valle, conduce alla località il Dosso (m. 677), dove, poco
sotto la stradina e le case, troviamo la bella chiesetta di San Giuseppe,
che sembra messa lì, sul punto in cui il crinale si fa più
ripido e pare sprofondare nel cuore oscuro della valle, a difesa delle
forze del male che potrebbero emergere dal suo fondo.
Proseguiamo, poi, in direzione del solco della valle del torrente Il
Fiume, che viene superato su un ponte in corrispondenza della cascata
della Püla. Subito dopo il ponte, sulla sinistra, troviamo il Museo
etnografico Vanseraf, ricavato dalla ristrutturazione dell’antico
Mulino del Dosso. Superato un tratto di più marcata salita, raggiungiamo,
quindi, Rasura, passando proprio sotto il cimitero e l’imponente
campanile della chiesa parrocchiale di S. Giacomo (m. 762), di origine
medievale (anche se l’attuale edificio è l’esito
di una ristrutturazione iniziata nel 1610).
Non dobbiamo salire al paese, ma, proprio sotto la chiesa, prestare
attenzione ad un cartello che indica la partenza, sulla sinistra, del
sentiero che scende al Ponte della Sorte. Imbocchiamo il sentiero e
cominciamo a scendere, in un ombroso bosco di castagni, superando qualche
rudere di baita ed inanellando diversi tornantini. Intercettiamo anche,
sulla sinistra, il sentiero che parte dal Dosso (e che non è
facile da trovare, per cui è meglio iniziare la discesa da Radura).
Dobbiamo perdere quasi 300 metri di quota, e, nell’ultimo tratto,
cominciamo a sentire il rumore delle acque del Bitto, che corrono nella
profonda gola del fondovalle.
Al termine della discesa, ecco il ponte, a 475 metri, gettato proprio
nel punto in cui le due sponde della valle, rinserrata fra orride muraglie
di roccia, si avvicinano. Lo
spettacolo è davvero affascinante: non solo il nome del ponte,
ma anche l’aspetto dei luoghi evoca gli arcani e misteriosi dettami
del fato, nascosti agli uomini come è nascosto lo spettacolo
del cuore oscuro di questa valle. In passato, per la verità,
questo ponte era assai più frequentato, mentre oggi ben difficilmente
incroceremo qualcuno.
Pochi passi, e siamo sul fianco occidentale del dosso: il sentiero prosegue
con un tratto un po’ esposto verso destra (attenzione, in caso
di neve o ghiaccio), cui segue un ultimo tratto verso sinistra. Al termine
la traccia confluisce nella nuova strada asfaltata, ancora chiusa al
traffico, tracciata dopo la rovinosa alluvione del 2000, per sostituire
quella che raggiunge Bema correndo sul lato opposto (orientale) del
dosso. Seguendola (oppure seguendo il sentiero, di cui troviamo, poco
sopra, la ripartenza) cominciamo la salita che si conclude alle prime
case di Bema (m. 793).
Salendo, sostiamo, di quando in quando, per ammirare gli scenari unici
che ci si offrono al nostro sguardo. Se guardiamo verso sud, cioè
in direzione della media ed alta Val Gerola, vedremo apparire una parte
della testata, con l’inconfondibile profilo del pizzo di Tornella
e, alla sua destra, le forme simmetriche del pizzo di Trona. Ma ancor
più interessante è quello che appare in direzione ovest
e sud-ovest: si mostra il pauroso e scuro fianco della valle (e ci domandiamo
come abbiamo potuto scenderlo interamente), mentre alla sua sommità
fa capolino, come sentinella posta ai limiti di questo regno delle ombre,
il campanile della chiesa di Rasura.
Spostiamo
lo sguardo a sinistra, in direzione sud-ovest: distingueremo, sull’aspro
fianco della valle, alcuni prati che scendono arditamente verso la sua
forra, con qualche baita che sembra sospesa sulla vertigine: si tratta
dei prati della località Scacciadiavoli (m. 630), a valle della
pista che congiunge Rasura a Pedesina. Di nuovo il diavolo, dunque.
La denominazione dei prati ha un significato inequivocabile, ed esorcizza
la paura di quegli spiriti maligni che la valle del Bitto sembra sempre
poter vomitare dal suo cuore tenebroso. Se guardiamo a nord, infine,
ci appaiono, sulla solare Costiera dei Cech (che genera un singolare
contrasto con la valle del Bitto), le sue più importanti cime,
vale a dire la cima di Malvedello e, alla sua sinistra, il monte Sciesa.
Ma è tempo di riprendere il cammino, alla volta di Bema, paese
quasi unico per la sua posizione isolata, di difficile accesso, ma anche
per la sua collocazione climaticamente e panoramicamente assai felice,
che giustifica l’antichità dell’insediamento. Ci
accoglie, dopo circa un’ora e tre quarti di cammino, la bella
chiesa di San Bartolomeo, di origine medievale, ma profondamente ristrutturata
a partire dal secolo XVII. Il centro del paese, con le case l’una
a ridosso dell’altra, ci regala quell’inesprimibile sapore
d’antico che contribuire a cacciare dalla mente i tetri pensieri
legati alle forze oscure ed alla loro permanente minaccia.
Da
Bema partono due piste che percorrono entrambi i fianchi del lungo dosso;
è anche possibile salire alla vetta del pizzo Berro, la cima
che domina il paese. Vale la pena di offrire un sintetico resoconto
su questa ascensione, anche se si tratta di un’escursione a parte,
da effettuare raggiungendo Bema in automobile (e tenendo presente che
la strada è aperta solo nelle fasce orarie 7.00-8.30, 12.00-14.30
e 17.30-19.00).
Lasciata l’automobile nel parcheggio che si trova all’ingresso
del paese, proseguiamo sulla mulattiera che risale decisa il dosso sul
quale è posto il paese. Dopo un breve tratto incontriamo una
grande croce, posta a ricordo del Convegno Eucaristico Diocesano del
1997. Saliamo ancora e, superate alcune baite, ci rincongiungiamo alle
due strade asfaltate che salgono dal paese. Proseguiamo sulla pista,
fino a raggiungere il rifugio Ronchi, a 1200 metri circa. A questo punto,
per salire al pizzo Berro ci sono due possibilità: la più
facile segue il sentiero che parte più avanti e passa per la
località Fracino; poco oltre il rifugio, si trova, invece, il
sentiero della costa, ben segnalato da molti cartellini gialli sui tronchi
degli alberi.
Dopo una lunga diagonale in una bella pineta, questo secondo sentiero
conduce alla località Pozzalle, a circa 1500 metri. Qui si trovano
un tavolino, un’altalena ed un’amaca, l’ideale per
una sosta riposante. Il sentiero riprende, più ripido ed un po’
esposto, verso la località Curt, piccolo poggio panoramico da
cui è ben visibile la bocchetta di Stavello, in alta val di Pai.
Da
qui parte il sentiero Lino, che nel primo ripido tratto presenta un
passo un po’ ostico, servito da due corde fisse. Superato il primo
tratto, la salita prosegue, seguendo il crinale, alla volta della croce
della vetta, dedicata a Paolo Buzzetti e posta a m. 1847: la raggiungiamo
con un ultimo sforzo, appena usciti dalla macchia.
Lo spettacolo dal pizzo è veramente ampio: ad ovest lo sguardo
raggiunge le Alpi Lepontine, mentre a nord ovest domina la costiera
dei Cech. A nord, si può ammirare, a destra della cima del Desenigo,
buona parte della testata della val Masino: si scorgono i pizzi Badile
e Cengalo, sono ben visibili i pizzi del Ferro, la cima di Zocca e di
Castello, la punta Rasica ed i pizzi Torrone. Chiude la testata l’imponente
monte Disgrazia. Mancano all’appello le cime più alte della
Valmalenco, ma è ben visibile il pizzo Scalino. Ad est si mostrano
il monte Lago e, alla sua destra, i monti Pedena ed Azzarini, fra i
quali si trova il passo di Pedena, che unisce la val Budria alla valle
del Bitto di Albaredo. A destra del passo di Pedena si vede il più
famoso passo di san Marco. A sud ovest si può ammirare la testata
della val Gerola, nella quale spicca il pizzo di Trona e, a destra,
la bocchetta omonima. Vista da qui, la valle del Bitto di Gerola sembra
un’armoniosa sinfonia di forme e colori, che protende i suoi versanti
verso la luce che l’avvolge. Uno scenario ben diverso da quello
riservato dalla forra del Bitto. Verso
ovest, infine, si vedono le cime del versante occidentale della val
Gerola, a partire dal pizzo dei Galli e dal pizzo Olano.
La salita da Bema al pizzo richiede circa
tre ore di cammino, per superare poco più di 1000 metri di dislivello.
Chi volesse leggere della storia misteriosa di don Carlo e di altre
storie arcane legate alla Val Gerola, può consultare il bel volumetto,
di Serafino Vaninetti, intitolato “Il pozzo delle paure”
(2001), ed in particolare il paragrafetto dedicato al Ponte della Sorte
e curato da Pio Buzzetti.