IL REGNO DI TARTANO
Prosperità e scomparsa di un mitico regno (storia e leggenda)
Testi a cura di M. Dei Cas
Non
dobbiamo chiedere alle leggende versimiglianza logica e geografica:
nate dall’immaginario popolare, spesso uniscono e fondono luoghi
che in realtà sono ben distinti e separati. E’ il caso,
fra le altre, della leggenda del Regno del Tàrtano, che narra
di un favoloso regno che fiorì, prospero, in un tempo che fu,
e che fu distrutto per l’empietà della sua ultima regina.
Chiunque viva in bassa Valtellina, quando sente nominare “il Tartano”
pensa al vasto conoide di deiezione del torrente Tartano, allo sbocco
dell’omonima valle, occupato da una grande distesa di massi e
da alcune selve che, nell’insieme, producono un effetto di desolazione.
Ed è questo lo scenario della leggenda, ma anche, nel contempo,
un luogo distante più di venti chilometri, Montagna in Valtellina
e Sondrio, ovvero la valle del Davaglione, la rocca del Castello Grumello,
i pregiati vigneti che producono il vino Grumello. La leggenda, raccolta
nella scuola elementare di Campo Tartano e riportata nel bel volumetto
“C’era una volta”, edito a cura del Comune di Prata
Camportaccio nel 1994, fonde i due luoghi, così diversi e distanti.
Narrano di un mitico Regno del Tartano, che godeva, in un tempo senza
orizzonte storico, di una particolare floridezza, grazie, soprattutto,
al pregiato vino prodotto, che veniva venduto ai mercanti del Nord.
Come tutte le cose belle, venne però anche per questo regno il
momento del tramonto. Ma non fu, a voler essere precisi, un tramonto,
bensì un’improvvisa e tragica scomparsa, legata alla frivolezza
ed all’empietà dell’ultima regina. Costei
si recava, nelle festività comandate, a sentir la messa nella
chiesetta di San Rocco: era un’abitudine cui non avrebbe mai rinunciato,
quasi un vezzo. Per questo motivo aveva ordinato al sacerdote che la
celebrava di non iniziarla prima del suo arrivo, anche se avesse dovuto,
per qualsiasi motivo, tardare.
Ed il giorno del ritardo venne, per un motivo, peraltro, banale. Diluviava,
infatti, quella domenica, e la regina, che non era certo abituata alle
situazioni di disagio, non si risolveva a lasciare la sua reggia, per
paura di bagnarsi. Attese, quindi, che spiovesse, prima di mettersi
in viaggio con la sua corte. Aveva, però, accumulato un ritardo
così consistente, che il sacerdote, vuoi per rispetto dei fedeli
convenuti, vuoi per rispetto della sacralità della S. Messa,
ad un certo punto si era deciso a celebrarla anche in sua assenza. Quanto
la regna giunse e constatò che era già stato pronunciato
l’”ite missa est”, l’antica formula con la quale
si congedavano i fedeli, andò su tutte le furie. Interpretò
la disobbedienza del sacerdote come un vero e proprio delitto di lesa
maestà, e la pena, in questi casi, non poteva essere che la morte.
Non fu celebrato neppure il processo: il sacerdote, per ordine della
regina, venne messo a morte prima che giungesse la sera di quella tragica
domenica.
Ma il gesto, empio ed ingiustificato, non fu privo di conseguenze. Sul
far del tramonto, il cielo cominciò ad oscurarsi, si fece nero
come la pece e scaricò sul quel disgraziato lembo di terra un
vero e proprio diluvio d’acqua, neppure lontanamente paragonabile
a quello che la mattina aveva creato tanta apprensione nella regina.
La Val di Tartano fu letteralmente investita dalla furia dei torrenti in
piena, che, confluendo nel Tartano, vi ammassarono un’enorme quantità
di materiale, massi e scura terra. Tutto questo materiale venne scaraventato
giù, verso la piana dell’Adda, e travolse lo sventurato
regno, la sua crudele regina ed i suoi infelici abitanti. Di tanta prosperità
e bellezza non restò più nulla. Da allora, chi passi nei
paraggi dello sbocco della Val di Tartano può osservare, sgomento,
i segni della rovinosa devastazione.
Al conoide del Tartano è legata anche un’altra storia,
questa volta, però, ben collocabile nel tempo, in quanto si riferisce
all’alluvione del 1960, che precedette la successiva e più
famosa alluvione del 1987. E’ stata raccontata da Restelli Pierina,
classe 1921, ed ha come testimone diretta una donna che lavorava come
domestica presso una nobile famiglia milanese, al servizio di una distinta
contessa. Non aveva mai avuto modo di notare alcunché di singolare
in molti anni di servizio, ma un giorno, correva l’anno 1960,
accadde qualcosa di impressionante e terribile, che gettò una
luce sinistra sulla figura della riservata signora.
Costei, la sera precedente, aveva impartito alla domestica una disposizione
ben precisa: la mattina successiva non sarebbe dovuta assolutamente
entrare nella sua camera da letto, perché desiderava dormire
fino a tarda ora. Una disposizione davvero singolare, che non aveva
precedenti, e che suscitò la più viva curiosità
nella donna di servizio. Una tentazione troppo forte, per resistervi
a lungo: così, l’indomani, questa si trattenne fin oltre
le nove di mattina (a quell’ora, di solito, la colazione era già
stata servita da un pezzo), poi finse di dimenticare l’ordine
ed entrò nella camera della signora con il consueto vassoio.
Ma
non riuscì a superare di molto la soglia, perché lo spettacolo
che si offrì ai suoi occhi la lasciò di sasso: non aveva
di fronte la familiare figura dell’assonnata e gentile nobildonna,
bensì uno spettacolo ben diverso, una megera dal volto rugoso
ed alterato, scarmigliata, sporca di fango dai piedi alla cima dei capelli,
ansimante, come se fosse reduce da un’immane fatica. Era sempre
lei, ma in una foggia quasi irriconoscibile. Gettò sull’esterefatta
domestica uno sguardo che parve trapassarla, e sibilò, con voce
arrochita: “Maledetta, che fai qui? Ti avevo detto a chiare lettere
che per nessun motivo avresti dovuto disturbarmi!”. Poi, con tono
quasi beffardo, soggiunse: “Lo vuoi proprio sapere dove sono stata
questa notte? Dalle tue parti, in Valtellina. Sono stata, con le mie
compagne, a far andar fuori il Tàrtano.” Proprio quella
notte, infatti, il Tartano era esondato rovinosamente.
Da quel giorno la contessa divenne, nel suo immaginario, la “strìa
del Tàrten”. Poi la contessa morì, e gli eredi,
che non sapevano che farsene del suo guardaroba, pensarono di farne
omaggio a lei, come segno di riconoscenza per i lunghi anni di scrupoloso
servizio. Questa dapprima esitò: aveva serbato l’indelebile
ricordo di quella notte come geloso segreto, e temeva la figura della
contessa anche dopo la sua morte; ma, alla fine, si decise: in fondo,
non le faceva alcun torto. Almeno così pensava. Quanto, però,
si ritrovò nella sua camera da letto a scegliere i capi che avrebbero
potuto servirle, fu testimone di un secondo prodigioso evento: ogniqualvolta
ne toccava uno, una luce, improvvisa ed inquietante, entrava da una
finestra, per poi uscire, dall’altra. Capì
così che la contessa, la strega del Tàrtano, era ancora
lì, non aveva abbandonato i luoghi e le cose che considerava
sue, perché il male sembra non voler mai allentare la sua presa
su questa terra e su chi la abita.
Per gli escursionisti
Se desideriamo dedicare mezza giornata alla visita di questi luoghi,
potremo anche scoprirvi l’antica mulattiera che, insieme alla
mulattiera della val Fabiòlo, costituiva, prima della costruzione
dell’attuale carrozzabile, negli anni cinquanta del secolo scorso,
l’unica via d’accesso all’importante valle orobica,
una delle più belle e giustamente famose delle Orobie valtellinesi.
Meta di questa camminata di scoperta è Campo Tartano, il primo
paese che si incontra salendo in Val Tàrtano, lo rende meta di
piacevoli e suggestive escursioni, alla scoperta di itinerari poco conosciuti
all'imocco della valle. Prima che fosse costruita l’attuale strada
asfaltata, come già detto, due erano le mulattiere che permettevano
di salire in Val di Tartano. Una è quella che parte dalla Sirta
e risale la val Fabiolo. La seconda è quella che sale dal conoide
di deiezione posto allo sbocco della valle.
Per trovarla, lasciamo la strada asfaltata della Val di Tartano imboccando,
dopo il primo tornante sinistrorso, la deviazione a destra che porta
ad una centralina idroelettrica. Qui la strada termina: bisogna proseguire
su un sentierino molto sporco (sono da evitare i calzoni corti!), che
ci conduce, attraverso la fitta vegetazione, ai primi sassi del grande
conoide del torrente Tàrtano. Dopo un riverente pensiero agli
antichi abitanti del regno sepolto, proseguiamo nel cammino: il sentiero
intercetta una stradina che, a sua volta, confluisce in una pista più
larga. Seguendola fino in fondo, ci ritroviamo a destra di una grande
roccia, proprio all’imbocco della valle.
Ora
torniamo indietro di qualche decina di metri e, guardando alla nostra
destra, noteremo la partenza di un sentiero che sale, nel bosco, sul
fianco orientale della valle, alternando tratti puliti e godibili ad
altri in cui la vegetazione lo invade fastidiosamente. Oltrepassata
una cappelletta, continuiamo a salire, con ottimi scorci panoramici
sulla bassa Valtellina, seguendo quella che si rivela, in molti tratti,
una mulattiera ben curata, e che giunge quasi a lambire, nel tratto
superiore, la strada asfaltata. Alla fine raggiungeremo il primo nucleo
abitato della valle, la località Case di Sotto (m. 972). Dopo
averla attraversata, senza salire alla strada asfaltata, proseguiamo,
a mezza costa, sul fianco della bassa valle, fino ad incontrare un secondo
gruppo di case e baite (il Bormino), dal quale dobbiamo salire alla
strada asfaltata. Dopo pochi metri, però, incontriamo subito
un sentiero che se ne stacca sulla destra: dopo aver gettato un’occhiata
all’impressionante forra sul lato opposto della valle, scendiamo
sul sentiero scavato nella roccia, fino al bacino artificiale della
diga ENEL di Colombera.
Dal camminamento della diga, evitando di sporgerci, possiamo osservare
il pauroso salto dello sbarramento, costruito proprio sulla stretta
porta rocciosa posta a guardia della bassa valle. Lasciamo il bacino
e saliamo, sul lato opposto della valle, sfruttando un comodo sentiero
che ha dei tratti molto panoramici: davvero felice è il colpo
d'occhio su Campo Tartano, i Corni Bruciati, il monte Disgrazia e la
costiera Remoluzza-Arcanzo. Il sentiero porta al maggengo di Frasnino
(m. 1074), per poi proseguire, verso sinistra, tagliando il fianco occidentale
della bassa valle.
Torniamo
sui nostri passi, fino alla casa dei guardiani della diga, per risalire,
sui prati della Costa, fino a Campo Tartano (m. 1080). Salendo in direzione
del Culmine di Campo, possiamo ammirare le belle baite della parte alta
del paese. Il sentiero prosegue, poi, nella salita verso la croce posta
alla sommità del Culmine, posta poco sopra i 1300 metri. Torniamo
sulla strada asfaltata e, poco sotto la chiesa di Campo Tartano, lasciamola
per imboccare un sentiero che fiancheggia per un tratto la sommità
di un muraglione e poi comincia a salire; troveremo presto un bivio,
al quale prendiamo a sinistra, seguendo un sentiero, spesso sporco,
che oltrepassa una baita diroccata e, raggiunta una fonte spesso secca,
piega decisamente a sinistra, scendendo in un fitto bosco. Intercettiamo,
così, un sentiero più largo; prendendo a destra, raggiungiamo
le baite di Case di Sopra (m. 952), mentre scendendo a sinistra ci ritroviamo
sulla strada asfaltata, poco sopra la località Case di Sotto.
Scesi su una stradina a quest’ultima, si torna alla centrale scendendo
sulla mulattiera già percorsa in salita.
Se, però, vogliamo tornare per una via diversa da quella di salita,
possiamo sfruttare la bella mulattiera della val Fabiòlo: a Campo
Tartano, portiamoci nella zona de cimitero e della vicina località
di Case di Sopra: qui attraversiamo il prato della bella sella erbosa
posta al culmine della val Fabiolo e, raggiunta una cappelletta, imbocchiamo
la bella mulattiera che scende nella valle. Passiamo,
così, a sinistra delle bellissime cascate di Assola, in un ambiente
severo e affascinante. La discesa della valle, stretta ed incassata
fra selvagge e scoscese pareti, che ne relegano gran parte nell'ombra,
è priva di difficoltà: attraversato un ultimo ponte, ci
avviciniamo alla forra terminale, che superiamo sul fianco sinistro
(per noi), fino a raggiungere l'abitato di Sirta. Da qui, procedendo
verso sinistra, raggiungiamo il punto in cui la strada per Tartano si
stacca dalla Pedemontana orobica, e possiamo così tornare all'automobile,
chiudendo un elegante anello che copre le vie "storiche" di
accesso alla valle, e che richiede circa 4 ore e mezza di cammino, per
superare un dislivello in altezza di circa 800 metri.