IL SAS DE STRÌ
L'impronta della capra-strega del Pesciadèl (Verceia) - leggenda
Testi a cura di M. Dei Cas
La
Foppaccia è uno splendido maggengo costituito da un’ampia
e panoramica fascia di prati che si stende, fra quota 1020 e quota 1090
circa, sopra Verceia. Da qui si gode di un panorama davvero suggestivo
sul lago di Novate Mezzola, sulla piana di Chiavenna e sulla bassa Valle
dei Ratti, il cui versante settentrionale è dominato, da sinistra,
dalle eleganti cime della punta Redescala (m. 2304), del Sasso Manduino
(m. 2888) e della punta Magnaghi (m. 2871).
Oggi il maggengo è un ottimo centro di villeggiatura estiva,
dove si può trovare anche un rifugio, il Chianova. Un tempo,
invece, era un pascolo preziosissimo nell’economia di sostentamento
della popolazione di Verceia. Qui si portavano, a maggio, le mucche,
che poi salivano, in estate, all’alpe del monte Bassetta (m. 1746),
a sud-est del maggengo.
Sulla mulattiera che congiunge la Foppaccia all’alpe Bassetta
si trova, più o meno a metà strada, una radura, denominata
Pesciadèl, perché circondata da abeti e pini (pèsc).
Mentre oggi la radura è invasa dalla bassa vegetazione, un tempo
vi si trovavano prati sufficienti a permettere di pascolarvi le mucche
per un certo tempo. Fu proprio durante questo pascolo che, una volta,
accadde un fatto stranissimo, che gettò sul luogo una fama sinistra.
Era una giornata come tante altre, tranquilla, o almeno così
pareva. Le mucche, però, non sembravano tranquille come tutti
gli altri giorni: apparivano irrequiete, sembravano non voler mangiare,
ed i pastori non sapevano spiegarsi il perché di un tale comportamento.
Per
un bel po’ la loro attenzione fu concentrata sugli animali: temevano
che fossero malati, che si fosse diffusa qualche terribile malattia
contagiosa. La perdita dei capi di bestiame sarebbe stata, infatti,
per loro una disgrazia irreparabile. Ma più che malate, le mucche
sembravano impaurite. Poi, uno di loro notò qualcosa che sembrava
aver qualche nesso con l’inquietudine delle bestie: un animale
strano, che sembrava una capra, ma era molto più grande, se ne
stava adagiato su un grande masso posto sul limite del bosco. Richiamò
l’attenzione degli altri pastori, e tutti guardarono in direzione
del masso, per capire di che animale si trattasse. Assomigliava ad una
capra, ma non poteva essere una capra, di capre così non se n’erano
mai viste. E poi di chi era? A quei tempi tutti sapevano riconoscere
le proprie bestie, e quella non apparteneva a nessuno di loro.
Il misterioso animale se ne stette per un po’, sornione, sul masso.
I pastori non avevano smesso di tenerlo d’occhio, curiosi ed intimoriti,
quando parve muoversi. All’inizio non si capiva bene cosa volesse
fare, poi uno dei pastori gridò: "Sta spingendo il masso,
sta spingendo il masso". "E’ una strega, una strega"
gli fece eco un altro. Infatti le grosse zampe dell’animale sembravano
proprio premere sul masso per spingerlo verso valle, e gli occhi, diabolici,
sembravano proprio quelli di una strega. Al
che ci fu un fuggi fuggi generale: i pastori, presi dal panico, abbandonarono
le mucche e se la diedero a gambe levate.
Dovette passare parecchio tempo prima che alcuni di loro, timorosi per
la sorte delle proprie bestie, si decidessero a tornare al Pesciadèl.
Tremavano di paura, ma si facevano forza al pensiero che se avessero
perso le mucche, per le loro famiglie sarebbe stata la miseria più
nera. Raggiunta la radura con cautela e circospezione, si appostarono
in un luogo che ritenevano sicuro, spiando in direzione del masso. La
capra non c’era più, mentre il masso era rimasto là,
dove lo avevano lasciato. Si fecero, allora, coraggio, e, con passi
cauti e guardinghi, si avvicinarono al masso. Niente, della capra malefica
non c’era più neanche l’ombra. Ispezionarono, allora,
il masso, e scoprirono, con raccapriccio, che l’animale vi aveva
impresso l’orma delle sue enormi zampe.
Non ebbero, allora, più dubbi: l’animale altri non era
se non una strega, una di quelle malefiche e terribili streghe di cui
avevano tante volte sentito raccontare, nelle lunghe sere d’inverno
passate accanto agli animali nella stalla, quelle streghe che, si diceva,
abitavano i recessi più nascosti ed ombrosi della valle Priasca,
ad est della Foppaccia e del Pesciadèl. La strega aveva tentato
di far rotolare l’enorme macigno a valle, perché precipitasse
sulla Foppaccia o addirittura su Verceia, provocando disastri e lutti,
ma, per fortuna, non c’era riuscita. Era però rimasto,
come monito terribile, l’impronta delle sue zampe sulla roccia,
perché gli uomini si ricordassero della minaccia permanente che
incombe su di loro. Questa
è la storia della strega del Pesciadèl, e di quel masso
che, da allora, venne chiamato “sas de strì”, e che
ancora oggi se ne sta lì, fermo, sul limite della radura che,
forse anche per paura, venne poi abbandonata come zona di pascolo.
Se vogliamo effettuare una bella escursione per verificare se sia ancora
là, dobbiamo raggiungere Verceia, il primo paese che incontriamo,
all’uscita della prima galleria della ss. 36 dello Spluga, percorrendola
da Dubino in direzione di Chiavenna. Il paese è posto allo sbocco
della Valle di Ratti, una delle più nascoste, suggestive e misteriose
della Provincia, dal momento che l’automobile non può salire
oltre una quota di poco inferiore ai 700 metri, ed il resto del tragitto
per raggiungerla deve essere effettuato a piedi. Le case di Verceia
sono poste in una sorta di arcana terra di mezzo fra lo scenario dolce
e riposante del lago di Novate Mezzola, ad ovest, e le aspre pendici
granitiche del versante montuoso, ad est e a sud, quel versante che
per ben due volte, nel secolo scorso (nel 1911 e nel 1936) ha rovinosamente
scaricato sull’abitato una gran massa di detriti alluvionali.
Dolcezza e violenza sembrano, dunque, trovare un misterioso punto di
sintesi in questo bellissimo luogo che accoglie chi si addentri in Valchiavenna.
La prima testimonianza dell’esistenza del paese risale al 1092,
quando era chiamato “fundus Vercelli”; nei secoli successivi
divenne “cantone” del centro principale di Lèzzeno
Superiore, la futura Novate, che si incontra proseguendo verso Chiavenna.
Nel
settembre del 1625, durante la guerra dei Trent’anni il territorio
di Verceia fu teatro di un’audace e brillante manovra che permise
al famoso colonnello e barone tedesco Peppenheim, che combatteva per
gli Spagnoli, di prendere alle spalle, passando dalla Val Codera e dalla
Valle dei Ratti, il campo delle contrapposte forze Francesi e Veneziane,
che dovettero ritirarsi fino a Traona. Un dipinto nella chiesa di San
fedele, donato dallo stesso Pappenheim, ricorda il glorioso fatto d’armi.
Qualche anno dopo, il tristemente famoso passaggio dei Lanzichenecchi
portò, fra il 1629 ed il 1630, la peste in tutta la valle: anche
qui il tributo in vite umane fu terribile. Così come fu terribile
il tributo che Verceia dovette pagare, alcuni secoli dopo, ai moti indipendentisti
del 1848. Un gruppo di insorti che combattevano contro l’occupazione
austriaca, capeggiati dal chiavennasco Francesco Dolzino, vi si era,
infatti, rifugiato, tenendo testa alle truppe del famigerato generale
Haynau, passato alla storia come “la iena” per aver trattato
con grande crudeltà l’insorta Brescia. Questi non ebbe
pietà per il piccolo borgo, che fu incendiato per rappresaglia.
C’è più di un motivo, dunque, per visitare Verceia.
Lasciamo, quindi, la ss. 36 al primo svincolo a destra all’uscita
dalla galleria (per chi proceda in direzione di Chiavenna) e portiamoci
nei pressi della chiesa parrocchiale di San Fedele (m. 228). Qui, se
amiamo camminare parecchio, possiamo parcheggiare l’automobile,
salendo in direzione della via Villa. Se
invece vogliamo guadagnare comodamente quota, possiamo percorrere questa
medesima via in automobile, salendo fino alla località Predello
(m. 428), teatro, nei giorni festivi, di piacevoli grigliate. La strada
la oltrepassa e continua a salire, finché, raggiunto uno spiazzo,
termina il fondo asfaltato. Ci conviene lasciare qui l’automobile,
senza proseguire sulla pista sterrata.
A sinistra della strada troviamo la mulattiera che, dopo aver tagliato
la pista sterrata, prosegue effettuando una lunga diagonale verso sinistra
(est), attraversando anche una fascia disseminata di suggestivi massi
erratici. La mulattiera è segnalata e, alla fine della traversata,
intercetta una più marcata mulattiera che sale da nord-est, cioè
dalla nostra sinistra. Siamo nel cuore di un bellissimo bosco di castagni,
in località Pecendrè (m. 776), dove, fra i ruderi delle
baite, si trova anche un interessante dipinto che raffigura una sorridente
Madonna con Bambino.
Abbiamo ancora circa 40 minuti di cammino prima di raggiungere la Foppaccia:
la mulattiera sale, con un fondo elegante ed in alcuni tratti scalinato,
fra castagni e faggi. Un simpatico cartello, un po’ sopra Pecendrè,
ci invita ad una sosta rispettosa dell’ambiente: “A la posa
in mez ai foo lèghia net come se al füdès to”,
cioè nella sosta in mezzo ai faggi lascia pulito come se il luogo
fosse di tua proprietà. Non fatichiamo a rispettare l’invito,
data la bellezza dei luoghi. Ancora qualche sforzo, e ci affacciamo
sul limite inferiore di prati della Foppaccia, dove incontriamo un primo
gruppo di baite, le baite di Tecc, eleganti e ben curate, per poi salire
in direzione del nucleo principale.
Lo
scenario è stupendo: alla nostra sinistra le baite sembrano riposare
tranquille, in questo angolo remoto e quieto, sorvegliate dalle già
citate cime della punta Redescala, del Sasso Manduino e della punta
Magnaghi, elegante e suggestiva cornice. Sotto le cime, si apre un ampio
scorcio della parte bassa della Valle dei Ratti, che mostra il suo centro
principale, Frasnedo. Alle spalle della valle, si vede anche la parte
bassa della Val Codera, e si distingue l’omonimo paese, che ne
costituisce il principale centro. Alla nostra destra la piccola ed isolata
chiesetta (m. 1044), con un campanile staccato, dalla sagoma curiosamente
bombata. Volgendo le spalle, possiamo godere di un panorama stupendo
sul lago di Novate Mezzola e sulla piana di Chiavenna. Il luogo è
davvero incantevole.
Salendo al gruppo principale di baite, scopriamo la presenza di un rifugio
che ha una parte sempre aperto (ottima cosa, in caso di maltempo imprevisto),
il rifugio Chianova.
Di fronte ad esso, un comodo telefono, anch’esso assai utile in
caso di imprevisti. Dopo una sosta dedicata al godimento estetico che
il maggengo ci regala, (ed al necessario riposo: siamo in cammino da
circa un’ora e mezza), ci rimettiamo in marcia: non dimentichiamoci,
infatti, che siamo sulle tracce del misterioso “sas de strì”.
Se chiediamo alla gente del luogo, ci dirà che non è facile
trovarlo, se non si sa dov’è.
Ma noi lo sappiamo, e, raggiunto il limite superiore di sinistra delle
baite, imbocchiamo il sentiero che, ben presto, ci propone un bivio,
segnalato su un sasso: a sinistra si prende per Lavàzz, a destra
per la Bassetta. Prendiamo
a destra e, dopo una prima serrata serie di tornantini, giungiamo ai
piedi di un enorme masso, che presenta una singolare spaccatura nella
quale è curiosamente incastrato un sasso. Oltre il masso, troviamo
una pianetta, che il sentiero, segnalato da bolli rossi, segnavia rosso-bianco-rossi
e bianco-rossi, oltrepassa, riprendendo a salire, fino ad una seconda
suggestiva pianetta. Dobbiamo salire ancora (facendo attenzione ai segnavia,
perché in alcuni punti è facile imboccare false tracce
di sentiero), fino alla terza pianetta-radura.
Siamo al Pesciadèl, a 1370 metri, circa a metà strada
fra la Foppaccia ed il monte-alpe Bassetta. Dalla Foppaccia al Pesciadèl
dobbiamo calcolare circa tre quarti d’ora di cammino. Riconosciamo
il luogo perché abbiamo l’impressione, dopo una lunga salita
nel bosco, di uscire all’aperto. Poche tracce, però, restano
del pascolo che fu. Ma il masso, quello c’è ancora. Lo
troviamo lasciando il sentiero (che taglia verso destra) e proseguendo,
verso sinistra, fra la bassa vegetazione disordinata, in direzione del
limite del bosco.
Il masso, piuttosto grande, si trova a poche decine di metri dal sentiero,
e reca, nella parete verso il monte, due grossi segni simmetrici, che
suggeriscono l’immagine di zoccoli di capra molto grandi. Non
ha un aspetto particolarmente minaccioso, come pure il luogo, che, al
massimo appare piuttosto desolato e solitario. Tuttavia se si mettesse
in moto verso valle, come era nell’intento della capra-strega,
gli effetti sarebbero sicuramente dirompenti. Proseguiamo, ora, per
un tratto verso sinistra, addentrandoci fra le ombre del bosco. La temibile
val Priasca non è lontana, e, nel silenzio, forse ci parrà
di udire qualche sinistro ghigno.
Tornati sul sentiero, possiamo, se abbiamo sufficiente tempo ed energie
residue, proseguire nella salita. E’ un sentiero che non fa complimenti
e si inerpica, deciso e ripido, sul fianco del monte. Poco sopra il
Pesciadèl, incontriamo, nel cuore di una splendida pineta, una
fresca sorgente, con un comodo bicchiere di latta collocato qui gentilmente
dal Comitato di Gestione Caccia del Comprensorio alpino di Chiavenna.
Dopo un nuovo ripido tratto, la vegetazione comincia a diradarsi un
po’.
La meta non è lontana, ma c’è ancora un po’
di sudore da versare. Dobbiamo intercettare, infatti, a quota 1544,
il sentiero che sale dall’alpe Piazza (sopra Cino e Dubino) e
seguirlo finché, dopo circa un’ora e mezza di cammino dalla
Foppaccia, usciamo all’aperto, ai prati dell’alpe. Superata
la Prima Baita (m. 1635), possiamo raggiungere la panoramicissima e
poco pronunciata cima del monte Bassetta (m. 1746). Lo scenario è
grandioso, sia in direzione delle valli dei Ratti e Codera e della catena
delle Alpi Lepontine, che in direzione del versante orobico. Sul medesimo
crinale, verso est, si impone, in primo piano, il monte Brusada.
Se
abbiamo a disposizione due automobili e ne abbiamo lasciata una all’alpe
Piazza (m. 991), possiamo facilmente scendere ad essa seguendo per un
buon tratto il crinale, fino alla modesta elevazione del monte Foffricio
(m. 1109), poco prima del quale prendiamo a sinistra, scendendo alle
baite alte dell’alpe. Dall’alpe parte una pista che scende
a Cino, il paese che si trova, sul limite occidentale della Costiera
dei Cech, a monte di Mantello. Da Cino possiamo, in un quarto d’ora
di automobile, raggiungere Nuova Olonio, imboccare qui la ss. 36 dello
Spluga e tornare a Verceia.