IL SASS DE SCEGN
La roccia che inghiottì gli zingari malvagi (leggenda)
Testi a cura di M. Dei Cas
Te se ‘n stròlec!”: chi, da bambino, non si è
qualche volta sentito apostrofare con questo rimprovero dai genitori,
dopo essere tornato in ritardo a casa, reduce da qualche eccessivo vagabondaggio?
“Stròlec”, da “stròlico”, astrologo,
indovino, negromante: è la voce dialettale che significa “zingaro”,
che poi è lo stesso che dire, nella metafora, vagabondo.
Nell’immaginario contadino gli zingari sono stati vissuti come
una sorta di universo rovesciato. Il contadino confida nella terra e
nella Provvidenza, in un orizzonte che vede passare la mutevolezza delle
vicende umane, ma rimane come scenario che non passa. Lo zingaro non
ha terra, è nomade, non consegna la sua vita ad una fatica sempre
uguale negli anni, ma vive sradicato, di espedienti, con una cultura
che scruta il destino scritto soprattutto nelle stelle, perché
è figlia del cielo, più che della terra. Di qui un’atavica
diffidenza del mondo contadino per questo mondo, per così dire,
alternativo.
In terra di Valtellina questa diffidenza si traduce anche in alcune
leggende. La più famosa è legata ad un fatto storico.
Proprio agli inizi dell’età moderna, nell’anno di
grazia 1505, una tribù di Rohm risalì la Valtellina, diretta
verso nord, in terra di Germania. L’itinerario passava per il
Foscagno. Gli zingari scelsero il percorso che taglia il Sass de Scegn
(o Crap de Scegn), la caratteristica parete rocciosa che sovrasta Isolaccia,
in Valdidentro. Si tratta di una parete verticale, alta fino a 70 metri,
che rappresenta l’estrema propaggine meridionale del gruppo montuoso
delle cime di Platòr, e che costituisce anche una sorta di balcone
naturale sul quale poggia il bosco di S. Antonio. La
parete è solcata dalla cascata dello Scegn (sulle carte indicato
con l’italianizzazione di Scanno). Si racconta che anticamente
le acque del torrente scendessero sempre limpide, ma in quell’anno
disgraziato accadde qualcosa che mutò la natura dei luoghi. In
coda alla colonna, infatti, la zingara più vecchia, che faticava
a tenere il passo, chiese di effettuare una sosta per riposare. Ma a
nulla le valse il rispetto dovuto agli anni, o la voce lamentosa: gli
zingari, per tutta risposta, la scaraventarono selvaggiamente giù
dalla rupe. A tanto giungeva la malvagità che si attribuiva a
tali uomini!
L’orrendo crimine non rimase senza conseguenza: la vecchia, precipitando,
maledisse i compagni scellerati, e la sua maledizione trovò eco
nelle forze della natura, perché la roccia si spaccò ed
un nero baratro inghiottì l’intera colonna. Di quel fatto
restano l’evidente spaccatura che taglia in due il Sass ed il
colore delle acque, che perse l’originaria limpidezza. Ma, si
dice, rimangono anche l’eco della voce della vecchia maledicente,
che non si è più spento, e, nelle notti di luna piena,
le stridule grida di quegli spiriti malvagi, che si levano dalla roccia
che fu muta testimone della loro efferatezza e che ora li incatena per
sempre. Esistono però anche altre leggende legate a questo luogo
inquietante, ed in particolare alla profonda spaccatura denominata "sclàpa
de li stria", cioè fenditura delle streghe. Si dice, infatti,
che qui, nelle notti del sostizio d'estate e d'inverno ed in quelle
di plenilunio, le streghe si diano convegno per scorazzare e folleggiare,
in un pauroso sabba.
Un resoconto di questa e di molteplici altre leggende dell’alta
valle si trova nella pregevole raccolta “Le leggende in Alta Valtellina”,
curata da Maria Pietrogiovanna nel 1998.
Vale
però la pena di concludere con una seconda e meno truce leggenda,
che spiega diversamente l’origine della spaccatura nella roccia.
Pare che, anticamente, vi fosse originariamente piantata una falce,
e si diceva che chi fosse riuscito a strapparla dalla sua morsa, avrebbe
potuto sposare la più bella ragazza di Isolaccia. Il paese si
chiamava così per l’aridità dei luoghi, dovuta alla
scarsità di corsi d’acqua. Venne, infine, il giorno in
cui un giovane riuscì a strappare la falce, guadagnando non solo,
per sé, la mano della ragazza, ma anche, per il paese, il prodigioso
dono di un corso d’acqua: la roccia, infatti, proprio laddove
era infissa la falce, si spaccò, e cominciò a precipitare
a valle il torrente Scegn.