LA GABINÀTA
La triste storia della bella mugnaia di Boalzo
Testi a cura di M. Dei Cas
La tradizione del Gabinàt è assai diffusa in Valtellina e
consiste nel cercare di sorprendere, fra i vespri della vigilia ed i
vespri del giorno dell’Epifania, altre persone, gridando “Gabinàt!”
prima che queste possano farlo a loro volta. A chi riusciva nell’intento
spettava un piccolo omaggio, che la persona sorpresa doveva fargli entro
la data di S. Antonio, il 17 di gennaio, offrendo piccoli dolci o pagando
da bere. Una tradizione simpatica, che però, stando a quanto
racconta Giuseppe Napoleone Besta nei suoi “Bozzetti Valtellinesi”
(pubblicati nel 1878 dalla Tipografia Bonazzi di Tirano) fu una volta,
in quel di Boalzo, all’origine di una lacrimevole tragedia.
Nel paesino, che si trova allo sbocco dell’omonima valle, sul
versante orientale dell’ampia rocca che, più in alto, ospita
Teglio (lo si raggiunge staccandosi dalla ss. 38 dello Stelvio, sulla
sinistra, subito dopo Tresenda, per chi proceda in direzione di Tirano),
viveva una giovane ragazza, di vent’anni, Eufemia, figlia di un
mugnaio, Stefano, e di Monica. La ragazza univa in sé due doti
che di rado si accompagnano, la bellezza e la docilità, ed aveva
un’amica, Marta, anche lei figlia di un mugnaio, ma di indole
assai diversa: tanto quella era semplice, schietta e sincera, altrettanto
questa era malevola ed ipocrita. Fingeva, infatti, amicizia nei confronti
di Eufemia, mentre in realtà era animata da una forte invidia,
anche perché era tutt’altro che bella, e di ciò
si tormentava parecchio.
A Teglio, posto a monte di Boalzo, viveva, poi, Giuseppe, giovane trentenne
di nobile famiglia, che, un giorno, si trovò ad incontrare Eufemia,
innamorandosene immediatamente. Fu, infatti, rapito dalla sua bellezza
e semplicità, ed iniziò a corteggiarla assiduamente, ricevendone,
all’inizio, una fredda risposta, di cauto riserbo (è da
ragazze sfacciate mostrare subito corresponsione di sentimenti, ed
oltre a ciò Eufemia voleva essere ben sicura della serietà
dei sentimenti e della bontà di carattere del giovane).
L’amore, però, si fece strada, prepotente, nel cuore della
giovane, ed i due cominciarono a frequentarsi sempre più spesso.
Giuseppe, animato dalle più serie intenzioni, le regalò,
come pegno del suo amore, una catena d’oro, con una medaglia che
recava, su un lato, l’immagine di San Giuseppe, sull’altro
quella di Santa Eufemia. La ragazza promise che non se ne sarebbe mai
privata finché fosse rimasta in vita. Era un vero e proprio idillio,
di cui si accorse la perfida Marta, che, rosa dall’invidia, cominciò
a diffondere voci malevole sui due innamorati e sui loro amoreggiamenti,
voci che giunsero fino alle orecchie dei genitori di Eufemia. Questo
la ferì profondamente: era combattuta, infatti, fra l’invincibile
amore per Giuseppe ed il dolore che le derivava dall’essere sulla
bocca di tutti e, soprattutto, dall’aver dato motivo di preoccupazione
a persone che le erano altrettanto care, i genitori, appunto.
Fu, alla fine, un tragico evento a porre fine al dilemma. Venne, infatti,
la vigilia dell’Epifania, e con essa si scatenò la caccia
alle vittime del “Gabinàt”. Eufemia, però,
era intenta a cose più serie, dovendo attendere alle incombenze
domestiche. Aveva, infatti, acceso il fuoco sotto una grande caldaia,
portando ad ebollizione l’acqua che, dopo l’aggiunta di
cenere e carbone, sarebbe servita per il bucato. Mentre
era immersa nel proprio lavoro e nei propri pensieri, senza che se ne
accorgesse entrò, nel locale dove si trovava la caldaia, Marta.
La finta amica, non paga delle voci cattive che aveva diffuso ad arte,
ardeva ancora d’invidia per Eufemia e per la sua storia d’amore,
lei che non riusciva a trovare nessuno che la volesse come fidanzata.
Con tutto il gusto cattivo di cui è capace chi vuol fare il male
scivolò, allora, furtiva alle spalle della ragazza, gridando
poi, all’improvviso, “Gabinàt!”.
Eufemia ebbe un moto di spavento, alzò le braccia ed aprì
le palme delle mani come per un’istintiva difesa, e ciò
le fu fatale: il mestolo che teneva in una mano le cadde proprio nella
caldaia, provocando un grande spruzzo di lisciva bollente, che la colpì
in pieno volto. Rimase orribilmente ustionata, alla fronte, all’occhio
sinistro, al naso ed al labbro superiore. Le conseguenze delle ustioni
furono terribili: perse la pelle della fronte, la pupilla dell’occhio,
che rimase bianco, ed il labbro che, staccatosi, lasciò scoperti
i denti, offrendo uno spettacolo penoso. Fu un colpo terribile: non
poteva accettare quel nuovo ed impressionante aspetto, si mise a letto,
coprendosi il capo per non essere vista, e non volle più vedere
nessuno.
La notizia dell’incidente si diffuse, e raggiunse Giuseppe, che fu
preso dalla più viva inquietudine, perché nulla sapeva
delle sue conseguenze e delle condizioni dell’amata. Lasciò,
tuttavia, passare un po’ di tempo, prima di decidersi a scendere
a Balzo, per verificare di persona come stesse Eufemia. Insistette presso
la famiglia per vederla, ed alla fine fu ammesso alla camera nella quale
l’infelice si era segregata. Non si rese conto subito delle condizioni
della sventurata, ma, quando questa si tolse il velo che la copriva,
rimase senza respiro, sconvolto per lo spettacolo insieme ripugnante
e pietoso che aveva di fronte agli occhi. La ragazza era altrettanto
sconvolta, e lo pregò di andarsene, di non pensare più
a lei, di considerarla morta. Fu un colpo terribile per Giuseppe, che
cadde in una brutta malattia, una meningite, dalla quale guarì,
uscendone, però, invecchiato di vent’anni.
Ben più triste fu la sorte della ragazza, che, impazzita, fuggì
di casa e si diede a vagabondare per i boschi. E così per tutti
gli anni rimanenti che ebbe in sorte di vivere: girava, inoffensiva,
per le selve, comparendo, di quando in quando, a qualche contadino.
Quando incontrava qualcuno, gridava, con tutto il fiato di cui era capace,
“Gabinàt!”, sghignazzando, poi, in modo folle. Per
questo i contadini finirono per chiamarla la “Gabinàta”:
la credevano una strega, un’anima condannata a vagare senza pace,
ed il suo aspetto, negli anni, divenne sempre più quello di orribile
megera. Venne anche per lei, infine, il giorno della pace: fu trovata,
assiderata, un gelido mattino d’inverno, sul sentiero di un bosco,
e venne consegnata al becchino perché provvedesse alla sepoltura
nel cimitero di Boalzo.
Questi si accorse che la vecchia cenciosa aveva addosso una catena d’oro,
un oggetto di gran valore, con l’immagine dei santi Giuseppe ed
Eufemia: ne fu assai sorpreso e non esitò ad appropriarsene.
La sventurata Eufemia aveva tenuto fede, anche nella sua lunga follia,
alla promessa fatta all’amato, e solo la morte la separò
dal segno del suo infelice amore.
Il becchino pensò di approfittare dell’insperato guadagno
per farne dono alla moglie. Questa, non appena vide la catena, trasalì,
riconoscendola: ricordava ancora bene, infatti, il giorno ormai lontano
nel quale l’amica glie l’aveva mostrata, orgogliosa. Si
trattava di Marta, che non aveva avuto sorte molto migliore dell’amica
cui aveva rovinato l’esistenza: non avendo trovato nessuno che
la prendesse come sposa, si era rassegnata alla triste condizione di
moglie del becchino.
Così
si conclude questa storia, degna del miglior melodramma e conosciuta
anche come la storia della bella mugnaia di Boalzo.