LA MORTE NERA
La peste nel Seicento: una storia fra Savogno e Dasile
Testi a cura di M. Dei Cas
"A
peste, fame et bello libera nos, Domine", cioè "Liberaci,
o Signore, dalla peste, dalla fame e dalla guerra": in questa
preghiera, ricorrente in tutta la Chiesa fin dal Medio Evo, sono menzionati
i tre maggiori flagelli da cui il popolo cristiano si sentiva periodicamente
afflitto. Carestie e guerre, dunque, ma, innanzitutto, la malattia più
temuta, la malattia per eccellenza, la peste. Essa si presentò,
a più riprese, nella storia, nella duplice forma di peste polmonare
e bubbonica. La causa era il batterio di Yersin, veicolato da una pulce
parassita dei topi, ma, fino ad un’epoca molto vicina a noi (1894),
non lo si sapeva, e le cause erano individuate nell’azione malefica
di unguenti o polveri utilizzate dagli “untori”, o, ancor
più genericamente, nell’azione di forze malefiche.
Quelli che si conoscevano bene, invece, erano i sintomi, terribili,
del morbo: nel caso della peste bubbonica, dopo una incubazione da uno
a sei giorni, il rigonfiamento delle ghiandole linfatiche alle ascelle
ed all’inguine (i bubboni, appunto), l’improvvisa febbre,
che raggiungeva rapidamente punte elevatissime (42°), seguita da
cefalee violente, vomito, emorragie, allucinazioni e delirio, fino alla
morte, a distanza di circa una settimana dai primi sintomi. La malattia
era quasi una condanna a morte: ridottissima, infatti, era la percentuale
di coloro che sopravvivevano ad essa. Nella sua variante più
virulenta, la peste polmonare (in cui erano le vie respiratorie ad essere
massicciamente aggredite dal bacillo), tale percentuale si riduceva,
poi, a zero.
Il germe entrava nell’organismo umano attraverso due vie: il contatto
cutaneo (bastavano piccole escoriazioni) e, nel caso della peste polmonare,
l’inalazione (come per una semplice influenza). Era
solo la peste polmonare ad essere contagiosa da uomo a uomo, ma le scarsissime
condizioni igieniche di quei tempi (lavarsi era una pratica piuttosto
rara) e la promiscuità fra uomini ed animali rendevano rapidissima
anche la diffusione della peste bubbonica.
La più famosa epidemia di peste nella storia moderna è
probabilmente quella raccontata dal Manzoni nei Promessi Sposi e causata
dal passaggio dei Lanzichenecchi, che calarono, dalla Valchiavenna,
sul milanese, nel contesto di una delle tante vicende belliche della
Guerra dei Trent’anni. La soldataglia, temuta anche per le sue
violenze, non si limitò, però, al passaggio: rimase di
stanza in Valtellina e Valchiavenna nell’estate del 1630, e questo
ebbe conseguenze tragiche per la diffusione della “morte nera”.
Fu un’epidemia che flagellò anche Valtellina e Valchiavenna,
mietendo un enorme numero di vittime, dall’estate del 1629 ai
primi mesi del 1631. La morte nera, così veniva chiamata con
un senso di profondo orrore, si diffuse dal fondovalle ai borghi di
media montagna, fino a toccare gli stessi alpeggi.
Fra le storie, tristi, legate al terribile contagio merita di essere
raccontata quella che ebbe come scenario due dei più bei paesi
della bassa Val Bregaglia, Savogno e Dasìle, collocati sulla
media montagna che sovrasta Borgonuovo di Piuro, oltre la soglia rocciosa
dalla quale scendono le celebri cascate dell’Acquafraggia. I due
paesi furono, fino all’Ottocento, divisi da una feroce rivalità,
solo in parte sopita dalla riconciliazione che avvenne proprio in quel
secolo. Le radici di tanto odio affondano proprio in quel triste periodo
secentesco che vide l’esplosione dell’epidemia di peste
in Valchiavenna.
La peste raggiunse, dal fondovalle, Dasile. Vi furono i primi sintomi,
le prime febbri, i primi orribili bubboni, le prime morti. La comunità
fu presa da un vero e proprio panico, perché nessuno avrebbe
potuto dire quando si sarebbe fermata l’epidemia. C’era
il rischio concreto che tutti soccombessero. Si prese allora una decisione
estrema: fu imposto a due giovani di lasciare le case del paese e di
salire all’alpe Corbia, vivendo isolati rispetto a tutti gli altri,
cui venne rigorosamente proibito di avvicinarli. Nell’ipotesi
peggiore, sarebbero sopravvissuti almeno loro, ed avrebbero consentito
al bestiame superstite di continuare a vivere. I due, con il cuore pieno
di sgomento ed apprensione, lasciarono dunque le case. Avevano ricevuto
l’ordine di scendere, periodicamente e con la massima cautela,
fino alle rocce che sovrastano il paese, per osservare cosa accadesse.
E così fecero. E quel che videro non fu certo rassicurante: le
persone che si muovevano fra le vie erano sempre meno, finché,
un brutto giorno, non si vide più nessuno. I giovani si fermarono
a lungo ad osservare, per sincerarsi che non vi fosse più alcuna
persona viva, ma non videro più né uomini né animali
muoversi fra le case di Dasile.
Presi dal panico e dalla disperazione, scesero allora verso Savogno,
il paese gemello collocato sul lato opposto della valle, un po’
più in basso. Giunti, però, al ponte che congiunge i due
versanti, lo trovarono distrutto sul lato di Savogno. Compresero che
gli abitanti di quel paese non solo non avevano prestato soccorso a
quelli di Dasile, ma avevano anche distrutto l’unica via di comunicazione,
per impedire che la peste li toccasse. Furono, quindi, presi da un fiero
sdegno e da una cieca ira. Animati da spirito di vendetta, meditarono
come far pagare agli abitanti di Savogno il crudele egoismo di cui avevano
dato prova. L’idea non tardò a farsi strada nella loro
mente. Avevano veduto, lungo il tragitto, la carcassa di un gatto morto.
Tornati sui propri passi e servendosi, con ogni cautela, di un lungo
bastone, afferrarono la carcassa, la portarono nei pressi del torrente
e la gettarono sul lato opposto della valle. Il germe del terribile
morbo approdò, quindi, sul territorio di Savogno, e non tardò
a raggiungere, propagato dagli animali, i suoi abitanti, che così
pagarono nel modo più terribile la loro colpa.
Per gli escursionisti
Visitare
questi luoghi, carichi di storia e suggestione, non è difficile.
Risaliamo, da Novate Mezzola, la Valchiavenna, fino a Chiavenna, dove,
ignorata la prima deviazione a destra per il centro, proseguiamo fino
ad una rotonda, alla quale prendiamo a destra, seguendo le indicazioni
per il passo del Maloja. Usciamo così dalla città e ci
inoltriamo, seguendo la ss. 37 del Maloja, in bassa Val Bregaglia, incontrando
dapprima la frazione di Campedello e poi Prosto, in comune di Piuro.
Oltrepassata Prosto, eccoci, infine, a Borgonuovo di Piuro (405 m),
a 4 km da Chiavenna. Stacchiamoci, qui, dalla strada statale del Maloja,
sulla sinistra, e lasciamo l’automobile al parcheggio nei pressi
dell’area dedicata alle famose cascate
dell’Acquafraggia, che l’omonimo torrente forma precipitando
sul fondovalle. Si tratta di una doppia cascata considerata monumento
nazionale: con un salto di 170 metri, il torrente supera il gradino
di roccia che costituisce la soglia di accesso alla valle dell’Acquafraggia
(toponimo che deriva da “aqua fracta”, che significa acqua
spezzata, con riferimento, appunto, al salto conclusivo del torrente).
Visitate le cascate, possiamo intraprendere la salita a Savogno, seguendo
le indicazioni per l’omonimo rifugio. Il sentiero parte dall’ultima
casa della frazione Serlone, posta sul lato opposto del torrente (ad
est rispetto al parcheggio). Sfruttando un ponticello, possiamo però
facilmente raggiungerla, ed iniziare a salire sulla splendida mulattiera,
quasi interamente gradinata, che non fa troppi complimenti: con un andamento
ripido che non lascia respiro, si inerpica, infatti, sul fianco montuoso,
all’ombra di splendidi castagneti. Nel primo tratto della salita
incontriamo diverse abitazioni, le cosiddette stalle dei ronchi, che
venivano utilizzate dai contadini che, scendendo da Savogno, coltivavano
con cura vigneti e castagneti di questa fascia montuosa, ora desolatamente
abbandonati. Esse
erano costruite con muri a secco e travi di legno, ed erano ricoperte
di tetti costituiti da piode, pietre dalla forma piatta raccolte all’alpe
Alpigia.
Salendo, incontriamo anche una caratteristica vasca per la raccolta
dell’acqua, con settori distinti per gli uomini e gli animali,
a riprova di un’attenzione particolare all’igiene, di cui
troveremo segni anche nel paese di Savogno. Fu questa attenzione che
preservò il paese, forse, dal contagio diretto, anche se non
valse a scongiurare gli effetti tragici della vendetta dei due giovani
di Dasile. Oltrepassata una cappelletta, raggiungiamo un bivio: prendendo
a destra, usciamo, in breve dal bosco, e ci ritroviamo ai piedi di un
grande muraglione, che contiene il terrapieno del sagrato della chiesetta
di Savogno, dedicata a S. Bartolomeo e consacrata nel 1465. Particolarmente
interessante è il suo campanile, che ha conservato la struttura
originaria. Sul sagrato è stato posto un busto che ricorda il
beato Luigi Guanella, che esercitò anche qui la sua azione pastorale.
Il paese, posto a 932 metri (un’ora e mezza di cammino, circa,
da Borgonuovo), era, in passato, abitato da diverse famiglie (come testimonia
la presenza di una scuola elementare), ma è stato abbandonato
dal 1967; esso offre, fra gli elementi di interesse, anche quello delle
sue dimore ordinate, con i balconi in legno e le porte d’ingresso
lavorate. Si tratta di dimore nettamente separate dalle stalle degli
animali, che sono poste più a monte, a riprova di quell’attenzione
per l’igiene di cui si è già fatta menzione. Ottima
è, poi, la collocazione panoramica: si tratta di un belvedere
naturale sulle cime del versante meridionale della Val Bregaglia. Vi
si trova, infine, anche un rifugio-ristorante, segnalato come rifugio
Savogno, che può costituire, d’estate, un interessante
punto di ristoro e di appoggio per chi volesse intraprendere la lunga
escursione al bivacco Chiara e Walter, posto sul passo che, dalla sommità
della valle dell’Acquafraggia, permette di scendere in Val di
Lei (il passo di Lei, a 2660 metri). Vale
la pena di ricordare che la valle dell’Acquafraggia, ed ancor
più quella di Lei, dispongono di alpeggi assai estesi e pregiati,
il che spiega la relativa agiatezza di cui dovettero godere, un tempo,
i contadini di questi luoghi.
Ma dobbiamo ora passare sul lato opposto della valle, quello che per
primo, nel tragico Seicento, venne colpito dalla peste. Per farlo, raggiungiamo
il lato occidentale del paese (alla nostra sinistra), dove, proprio
sul limite delle abitazioni, si trova anche il rifugio, e proseguiamo
scendendo al ponte sul torrente, che ci porta, appunto, sul versante
occidentale della valle. Il sentiero prosegue ed oltrepassa una cappelletta,
collocata in un punto dal quale si gode di un’ottima visuale sull’intero
paese di Savogno, prima di uscire dal bosco, sul limite inferiore degli
ampi prati che ospitano Dasile (m. 1032). Nella sua parte più
bassa troviamo la chiesetta di San Giovanni Battista, che fu edificata
nel 1689, anche grazie alle rimesse degli abitanti che erano stati costretti
ad emigrare a Venezia per trovare lavoro. A Dasile le dimore sono più
semplici, austere, e suggeriscono una minore agiatezza. Forse è
anche questo uno dei motivi di risentimento antico che sfociò
nell’episodio del contagio e si trascinò, poi, per i due
secoli successivi.
Una seconda storia, anch’essa riportata nel volume di AA VV “C’era
una volta – Vecchie storie e leggende di Valtellina e Valchiavenna”,
edito nel 1992, conferma la diversa mentalità degli abitanti
dei due paesi. Si racconta che un tempo gli abitanti di Savogno e Dasile
possedessero alpeggi anche nel territorio svizzero della Val Bregaglia,
ma che, in seguito ad alcune annate caratterizzate da raccolti sfavorevoli,
avessero contratto debiti ingenti con abitanti di Soglio e Castasegna.
Stipularono, così, con questi un accordo: se non fossero stati
in grado di saldare i debiti entro una data stabilita, avrebbero ceduto
loro gli alpeggi. A
prezzo di grandi sacrifici, la somma dovuta fu raccolta, ma proprio
lungo il viaggio verso Castasegna gli abitanti di Savogno e Dasile persero
del tempo prezioso, anche perché distratti abilmente dagli astuti
svizzeri.
Giunsero, così, con poche ore di ritardo e gli Svizzeri reclamarono
la cessione degli alpeggi, come da accordi intercorsi. Ne nacque una
lunga e faticosa trattativa, nella quale, inizialmente, questi ultimi
non vollero sentire ragioni, mentre poi si ammorbidirono un po’,
ed accettarono di lasciare agli abitanti di Savogno e Dasile uno degli
alpeggi contesi. Gli abitanti di Savogno si dissero paghi del risultato,
consapevoli che non avrebbero potuto ottenere di più, ma quelli
di Dasile non se ne diedero per inteso, poiché non volevano cedere
alcun alpeggio. Fu così che uno di loro, spazientito, picchiò
un sonoro pugno sul tavolo, esclamando: “O tütt, o nagot!”,
cioè: “O tutto, o niente!”. E fu niente, perché
gli Svizzeri, indispettiti, si tennero tutti gli alpeggi. Non fu, però,
una disgrazia per le due comunità, che possedevano begli alpeggi
anche a monte dei paesi, in alto, nella zona del bellissimo lago dell’Acquafraggia.
Ed a questo proposito si racconta un’altra storia, più
amena. La salita al lago, da Savogno, è assai lunga e faticosa,
essendo questo posto a 2043 metri, cioè a più di tre ore
di cammino dal paese. Quando i bambini si facevano un po’ più
grandicelli, veniva, per loro, il momento di salire per la prima volta,
all’inizio dell’estate, all’alpe Lago, per imparare
il lavoro del pastore. La
prima salita era una specie di piccolo evento, assai temuto, perché
legato ad una prova terribile. Si diceva loro, infatti, che avrebbero
dovuto affrontare, una volta giunti all’alpeggio, una vecchia
ed orrenda megera, che viveva lì da tempo immemorabile e che
esigeva da tutti i nuovi pastorelli un omaggio a dir poco singolare,
il bacio del sedere. E’ facile immaginare con quale senso di paura
e di disgusto i ragazzi salissero lungo il sentiero che porta all’alpe,
e come si sentissero quando, giunti nei pressi di un grande masso, veniva
loro annunciato che l’ora della prova era giunta, perché
la megera se ne stava ad attenderli proprio dietro di esso. Ma dietro
il masso non c’era proprio nessuno, ed i futuri pastorelli scoprivano,
fra le risa dei più grandi, che si trattava di uno scherzo, da
rinnovare anno dopo anno e generazione dopo generazione. Sollevati per
lo scampato pericolo e fieri del segreto di cui erano stati resi partecipi,
e che li rendeva ora, ufficialmente, grandi, si accingevano così
ad iniziare la lunga stagione dell’estate all’alpe. Mentre
immaginiamo questa scena, proseguiamo, dalle case alte di Dasile, sul
sentiero segnalato per Corbia, l’alpe che si trova a 1373 metri,
ad un’ora circa di cammino. Dopo una breve salita, raggiungeremo
uno splendido terrazzo di prati che si stende appena sopra il paese:
fermiamoci qui a godere il bellissimo scenario delle cime della Val
Bregaglia, ed insieme ad immaginare lo stato d'animo dei due giovani
di Dasile, che da qui spiavano le sorti del loro paese, prima di iniziare
la discesa che ci riporterà a Borgonuovo.