LEGGENDE DELL'APRICA
Commozione e mistero fra Valtellina e Valcamonica (leggenda)
Testi a cura di M. Dei Cas
Aprica,
luogo aperto e luminoso, come suggerisce il nome. Oggi, località
si soggiorno invernale ed estivo fra le più conosciute in Lombardia,
nella piana del passo omonimo (m. 1172), il corridoio naturale che consente
il passaggio più agevole fra la media Valtellina e l’alta
Valcamonica. Un tempo, villaggio che viveva della magra economia agro-pastorale,
quando dei fasti delle attività connesse con in turismo non si
aveva ancora sentore. In questo tempo si radicano alcune leggende, che
conservano il gusto di un passato in cui l’incanto, lo stupore
ed il timore si ritagliavano uno spazio più importante nei cuori
della gente.
Il primo posto va doverosamente riservato alla leggenda connessa con
il nome stesso del paese. Aprìca era, in un tempo antichissimo,
una gentile fanciulla, di rara bellezza, figlia di uno dei più
ricchi contadini del villaggio, il Renzìn del Palabione. Il padre
aveva molti progetti matrimoniali su di lei, desiderava vederla sposa
di qualche buon partito, che gli avrebbe consentito di accrescere le
sue ricchezze. Ma lei non pareva guardare alcun giovane del paese: nel
suo cuore, infatti, coltivava il sogno di poter incontrare un tal giovane
della montagna, una figura quasi leggendaria di cui aveva sentito parlare
fin da piccola. Ma del giovane della montagna, essere fiero, forte e
leale, nessuno aveva più visto traccia da anni, e si diceva che
se ne fosse andato in qualche paese lontano. Aprica,
però, non si dava per vinta, e si consumava nel suo sogno d’amore.
Venne, allora, portata su una malga del Palabione, perché guarisse
dal male d’amore. Qui accadde il prodigio. Nella notte dell’equinozio
d’autunno il giovane della montagna udì le sue preghiere,
venne e la portò via, nella sua dimora, fra le nevi ed i ghiacci
perenni, nel castello della Regina delle Nevi. La Regina era un essere
freddo ed altero: il suo cuore pareva inaccessibile ai sentimenti. Eppure,
alla vista di un tanto grande amore, si commosse e, per la prima volta,
si sciolse in un pianto. Le sue lacrime si trasformarono in petali,
che caddero sui versanti del pizzo Palabione. La Regina volle lasciare
un altro segno della sua commozione: da allora, ogni inverno, regalò
generosamente alla piana del passo l’elemento che era sotto il
suo dominio, la neve, appunto, quella neve che ammanta abbondante questi
luoghi. E da allora il villaggio, in ricordo della fanciulla che aveva
creduto fino in fondo ad un amore giudicato da tutti impossibile, venne
denominata Aprica.
La neve ed il Palabione sono protagonisti di una seconda storia, narrata,
come la prima, nel libro “L’erba della memoria”, di
Alfredo Martinelli (Bissoni, Sondrio, 1964). La cornice della storia
è un inverno segnato da nevicate eccezionalmente abbondanti.
A febbraio nevicava ancora, e le falde del Palabione erano cariche di
un’enorme massa di neve. La
sopravvivenza, per gli animali che popolano quei monti, era diventata
assai difficile. In particolare, un capriolo, ferito da un lastrone
di ghiaccio, stava per soccombere, stremato, quando venne trovato da
un guardacaccia, Carletto, che se l’era caricato spalle e se l’era
portato nella stalla di casa propria, perché si riprendesse.
Poco a poco il capriolo aveva riguadagnato le forze, si era rimesso
in piedi, per la gioia del guardacaccia e di suo figlio Mario, che amava
moltissimo il disegno e passava molto tempo a ritrarre la bestiola in
mille pose.
Il ragazzo si era affezionato moltissimo al capriolo, desiderava tenerlo
sempre con sé. Ma le leggi della natura volevano altrimenti,
e, all’inizio della primavera, il capriolo cominciò a sentire
il richiamo di quei monti che erano la sua casa. Carletto comprese che
togliergli la libertà significata togliergli la vita, e, non
appena la neve aveva lasciato spazio sufficiente ai pascoli, lo lasciò
libero. Mario pianse, ma non si oppose. Passarono i mesi, venne l’estate,
la stagione delle lunghe passeggiate nei boschi, passeggiare nelle quali
il ragazzo amava accompagnare il padre, sbizzarrendosi però anche
in certe sue esplorazioni solitarie fra macchie e boschi che lo affascinavano
con il gusto dell’avventura. E fu proprio in una di queste che,
vinto dalla stanchezza, nel cuore di un pomeriggio afoso, si addormentò
in una radura, fra piante di mirtilli. Carletto,
preoccupato per la sua prolungata assenza, lo cercò a lungo,
ed alla fine lo trovò, ancora immerso nel sonno. A pochi metri
da lui vide, con spavento, una serpe, immobile. Si avvicinò per
ucciderla, ma subito vide che era già morta, calpestata, in più
punti, da qualcosa, forse zoccoli d’animale. Non seppe mai cos’era
accaduto. Lo sapeva, però, il capriolo, che aveva salvato la
vita del ragazzo, ignaro, ed ora assisteva, commosso, alla scena, nascosto
nella macchia.
La commozione è anche il tema di una terza storia, che però,
a differenza delle precedenti, ha un fondamento storico, il passaggio
all’Aprica di San Carlo Borromeo, uno dei campioni della Controriforma,
instancabile difensore della fede cattolica contro gli assalti delle
confessioni riformate. In uno dei suoi viaggi pastorali San Carlo passò
proprio per il passo dell’Aprica, salendo dalla valle dell’Ogliolo,
cioè dall’alta Valcamonica, per scendere in Valtellina,
terra nella quale la fede cattolica era insidiata dal dominio dei Grigioni,
protestanti. Passò il 27 agosto del 1580, sul dorso di un cavallo.
Faceva caldo, quel giorno, ed il santo ebbe sete. Oggi non avrebbe che
l’imbarazzo della scelta, visto il gran numero di esercizi che
si trovano nel paese. Ma a quel tempo trovare dell’acqua non era
così semplice.
Volse lo sguardo intorno, e vide una fontana, dalla quale, però, non
usciva una goccia d’acqua. Chiese, allora, ad un contadino che
passava di lì il motivo di ciò. Questi rispose che da
quella fontana non usciva più acqua da tempo immemorabile: era
impossibile dissetarsi lì! Impossibile agli uomini, ma non a
Dio, pensò il santo. Memore di quel passo evangelico, nel quale
si dice che tutto ciò che viene chiesto a Dio Padre con fede
autentica, viene da lui concesso, egli rivolse, allora, al cielo una
fervente preghiera. E fu subito miracolo, il miracolo dell’acqua
che zampillò di nuovo dalla fontana. Una seconda versione racconta
che il santo fece addirittura sgorgare direttamente l’acqua dal
terreno, ad un tocco del bastone che teneva nella mano. Egli, poi, bevve,
con semplicità e naturalezza: per un uomo della sua fede, era
naturale che Dio avesse accolto una preghiera profonda e sincera. Ma,
non appena si sparse la voce di quanto era accaduto, accorse la gente,
stupefatta per l’evento soprannaturale. Vide nell’austero
uomo di chiesa i chiari segni della santità, e volle lasciare
un segno che ricordasse per sempre il suo passaggio ed il suo miracolo.
Là dove era sgorgata la nuova sorgente d’acqua freschissima
venne costruita una fontanella, che recava incisa la data del miracolo.
Più tardi, quando già Carlo Borromeo era stato dichiarato
santo, sorse, a fianco della fontanella, anche una cappelletta, dedicata
a lui, dove un dipinto lo ritrae nell’atto di far sgorgare l’acqua
dal terreno.
Esiste, però, anche una seconda versione della leggenda, più
poetica e suggestiva. Questa
vuole che la sorgente non sia sgorgata al tocco del bastone del santo,
per dissetarlo, ma da una sua lacrima, una lacrima di commozione. Le
cose sarebbero andate così. Raggiunta la sella del passo, Carlo
avrebbe udito una melodia celestiale, un coro d’angeli. Si sarebbe
fermato, stupefatto, volgendo lo sguardo intorno. Non avrebbe visto
angeli, ma il superbo spettacolo che lo circondava da ogni lato. In
fondo, ad oriente, le sette maestose cime del gruppo dell’Adamello,
mentre sulla destra, verso sud, le più modeste ma pur sempre
belle cime del Palabione, del pizzo della Nona e del dosso Pasò.
Alle spalle, verso sud-ovest, le eleganti cime dei monti Torena e Lavazza.
Verso nord-est, infine, la dolce cime del monte Padrio, raggiunta dai
pascoli alti. Uno spettacolo che parla della gloria di Dio Creatore,
della sua saggezza e bontà. Rapito da tanta bellezza, stupito
e commosso, il santo non avrebbe saputo trattenere un pianto commosso,
e la prima lacrima caduta sul terreno sarebbe stata all’origine
della sorgente di acqua che ancora oggi rampolla dal cuore della terra,
per conservare la memoria di un pianto suscitato non dalla tristezza,
ma dalla gioia più profonda.
Comunque siano andate le cose, la fontanella e la cappelletta, restaurate
di recente (giugno 2004), sono ancora là, a ricordare che l’acqua
che da lì sgorga conserva il sapore del miracolo. Per visitarle,
scendiamo di un paio di chilometri, verso la Val Camonica, oltre il
passo. Oltrepassati, sulla sinistra, lo svincolo per Trivigno, e, sulla
destra, il Camping Aprica, troviamo uno svincolo sulla destra, con un
cartello che segnala la Taverna Abete. Poco dopo aver impegnato lo svincolo,
svoltiamo ancora a destra, imboccando una stradina che risale verso
il centro dell’Aprica. Sulla destra, alcune centinaia di metri
prima del Baradello, troveremo la cappelletta e la fontanella.
Allontaniamoci, ora, dal centro dell’Aprica, per raggiungere l’imbocco della
Val Belviso, sfruttando (se scendiamo verso la Valtellina) la strada
che si stacca, sulla sinistra, dalla strada statale 39, e raggiunge
il ponte di Ganda, presso la località omonima. Questa località
è legata ad una leggenda che ci cala in un’atmosfera più
fosca, e che viene raccontata da Leila Basci nel ciclostile della IV
B della scuola elementare di Chiuro “Storie e leggende dei nostri
paese”, curata dall’insegnante Armida Bombardieri, nel 1974.
Un tempo lontano la località che ora si chiama Ganda (dal termine
dialettale che significa ammasso di sassi, corpo franoso) ed è
piuttosto desolata e solitaria era invece luogo di ritrovo per tutti
coloro che amavano darsi alla bella vita e frequentavano una casa nella
quale vi era una sala da ballo. Qui si tenevano feste e banchetti.
Durante uno di questi, bussò, un giorno, alla porta della casa
un umile pellegrino, vestito di povere vesti, stanco ed affamato; gli
aprì la domestica, e questi le chiese di poter avere, per carità,
un poco da mangiare. La donna, che era donna di buon cuore, stava cucinando
succulente vivande per i convitati, e pensò che fosse giusto
che anche quel pover’uomo potesse godere di tutto quel ben di
Dio. Ma non poteva decidere di ciò che non era suo, e quindi
chiese alla padrona di potergli dare parte dei cibi che stava cucinando.
Ma la padrona era di pasta diversa, non era tipo da farsi commuovere
per la misera sorte altrui: per questo ordinò alla domestica
di rispondere al pellegrino che in casa non c’era nulla di pronto.
La domestica fu addolorata dalla risposta, e di nascosto diede al supplice,
che era rimasto ad attendere alla porta, una ciotola di brodo di pollo
ed un po’ di pane.
Questi rimase in silenzio, per qualche istante, poi pronunciò, con tono
fermo e solenne, queste parole: “Chi si dà a balli, canti
e gozzoviglie rimanendo indifferente alla sofferenza altrui, merita
il più severo dei castighi. Ma tu, che ti sei commossa per la
mia sorte, non lo meriti. Prepara, dunque, tutte le tue cose, per fuggir
via. Ma prima servi il pollo in tavola. Sentirai, allora, tre chicchirichì:
al secondo, non esitare e vieni via, senza voltarti indietro, qualunque
cosa tu senta.” Era un tono che non ammetteva repliche. La donna
confusa e tremante, ubbidì. Raccolse le sue cose in un fardello,
terminò di cucinare il pollo e lo servì ai commensali
che, interamente presi dal clima spensierato della festa, non si erano
accorti di nulla. Non credeva possibile che un pollo già cucinato
potesse fare davvero chicchirichì, ma era sicura che qualcosa
di terribile stava per accadere. Quando sentì che dal pollo fumante
veniva proprio il chicchiricchì che le era stato annunciato,
non ebbe più dubbi: lasciò precipitosamente la sala del
banchetto, raccolse le sue cose e scappò dalla casa.
Appena in tempo: dopo qualche istante, infatti, udì un fragore
terribile. Non resistette alla tentazione, e si volse un attimo per
vedere. Un
pezzo di montagna stava venendo giù, con massi enormi, che seppellirono
la casa dei gaudenti. Scossa per quanto accaduto, e temendo di essere
punita per essersi voltata disobbedendo all’ordine di quel pellegrino
che, ormai ne era certa, era il Signore o un suo angelo, la donna donò
i terreni che aveva nella piana dell’Aprica alla parrocchia. Giunse,
quindi, serenamente alla fine dei suoi giorni, ma non mancò mai
di lasciarne passare alcuno senza narrare a tutti coloro che incontrava
quanto accaduto, perché imparassero quali punizioni attira dal
cielo l’avidità di chi rimane insensibile di fronte alle
sofferenze altrui.
Queste sono solo alcune delle leggende che si narrano in quel dell’Aprica.
Di molti altri prodigi si racconta, in questo luogo di incanto e suggestione,
dove anche malefici e sortilegi hanno una lievità unica, e gli
spiritelli, a quanto si dice, si limitano ad annodare in fitte trecce
il crine dei cavalli.