LEGGENDE SONDALINE
Quel che si racconta nel territorio di Sondalo (leggende)
Testi a cura di M. Dei Cas
Il territorio di Sondalo è particolarmente ricco di leggende. Il
nome stesso del paese, l’ultimo comune di medie dimensioni che
si incontra risalendo l’alta Valtellina in direzione di Bormio,
è legato ad una leggenda a sfondo storico, quello del terribile
secolo XVII, nel quale la peste bubbonica, portata dai Lanzichenecchi
che attraversarono la Valtellina durante una delle campagne della guerra
dei Trent’anni, decimò le popolazioni della valle. La peste
raggiunse anche il territorio di Sondalo, facendo strage nel fondovalle
e nei maggenghi. Si racconta che alla furia del morbo scampò
un solo pastore, ignaro di quel che era accaduto. Quanto questi scese,
con il suo gregge, dall’alpe solitaria dove l’aveva condotta,
non vide più anima viva aggirarsi fra le case. Si guardò
intorno più e più volte, chiamò, gridò:
nulla. Alla fine si arrese alla terribile evidenza, e sembra che abbia
esclamato “Son da sol”, cioè “sono da solo”.
Di qui il nome di Sondalo: almeno così vuole la leggenda. La
storia, invece, ci insegna che tale nome si trova già in documenti
che risalgono a diversi secoli prima, e precisamente al secolo XI.
Fra le leggende sondaline, però, la più nota è senza
dubbio quella della bella majona di Boffalora, raccontata da A. Martinelli
nel suo volume “L’erba della memoria”, edito da Bissoni,
in Sondrio, nel 1964. Majona, nel dialetto locale, significa “ragazza”,
ed infatti la protagonista della leggenda, che si fonda su personaggi
e fatti storici, era Agnese, la bella figlia di Corrado Venosta, feudatario
del castello di Boffalora. Questi, di parte ghibellina, fu un personaggio
intrepido e risoluto e, nel 1270 al 1272, tenne prigioniero proprio
in questo castello il vescovo di Como, Raimondo Torriani, dopo averlo
sorpreso nella piana di Bolladore. L’illustre prigioniero fu,
addirittura, esposto al pubblico ludibrio, chiuso in una gabbia. L’audace
rapimento suscitò però la veemente reazione della parte
guelfa dei Torriani. Nel 1273 da Milano salirono, infatti, in Valtellina
le milizie di Napo Torriani, per vendicare l’offesa arrecata al
prelato: il castello fu preso e distrutto il 25 settembre 1273.
È in questo contesto storico che si inseriscono le vicende narrate
dalla leggenda. Agnese era una giovinetta gentile e bellissima. Di lei
si invaghì un paggio, che fungeva anche da menestrello, suonando
e cantando per i castellani. Più e più volte aveva lodato
con le sue rime la sua bellezza, e non si trattava di versi di circostanza,
ma di espressioni di un sentimento che nel suo cuore aveva preso la
forza di una passione irrefrenabile, tanto da giungere ad accecarlo.
Era
disposto a tutto pur di averla, anche al tradimento. E l’occasione
gli si presentò quando a cingere d’assedio il castello
giunsero le milizie dei Torriani. Il paggio pensò che se questi
avessero preso il castello ed ucciso il suo signore, avrebbe potuto
coronare il suo sogno sposandone la figlia; si accordò, quindi,
segretamente con loro, e, approfittando di una notte nella quale un
violento temporale oscurava il cielo, aprì le porte al nemico,
che irruppe in forze nel castello, sorprendendo i suoi abitanti immersi
nel sonno.
Ma i Torriani non poterono cogliere la vittoria frutto del vile inganno:
un lampo accecante fu seguito dalla tremenda scarica di un fulmine di
inusitata violenza, che investì il castello, riducendolo ad un
ammasso di rovine. Tutti i soldati, dell’una e dell’altra
parte, terrorizzati, si diedero alla fuga, inseguiti dal boato immane
del tuono, che riecheggiò fra le mura diroccate. Solo l’indomani,
placatasi la furia degli elementi, alcuni fra i più fidi soldati
della guarnigione del castello osarono tornare al castello, per cercare
qualche traccia del loro signore, di cui non si avevano più notizie.
Non trovarono né lui, né la figlia; l’unico cadavere
rinvenuto nel castello fu quello del paggio, la cui fuga era stata impedita
da una trave, che gli era rovinata addosso, schiacciandolo. Pagò,
così, con il prezzo più alto il suo tradimento. Ma
pagarono anche Corrado e la figlia, che non furono mai più trovati.
Una variante della leggenda narra che del castello non rimase neppure
la minima traccia, non una sola pietra, come se la terribile tempesta
notturna l’avesse interamente inghiottito e portato via con sé.
La leggenda racconta anche che l’anima della giovinetta appare,
talora, sulla sommità del dosso che ospitava il castello. Questo
accade nelle notti illuminate dalla luna piena. È possibile scorgerne
l’esile e pallido profilo, mestamente chino su un telaio, come
se tentasse di riprendere il filo della vita tragicamente spezzata.
La fama della giovane infelice si diffuse in Sondalo, e commosse tutti,
tanto che nacque la consuetudine, fra le ragazze sondaline, di recitare
per lei questa invocazione: “Pater, pater, torna indrée,
/ van per l’anima de lée”.
C’è però anche un’altra Agnese nel passato
di Sondalo, e precisamente Sant’Agnese, cui è dedicata
la bella chiesetta che ancora oggi si può vedere sulla destra
all’inizio della strada che sale verso l’ospedale Morelli
e che, secondo un’antica credenza, sarebbe stata fondata addirittura
dall’imperatore Carlo Magno. Questi, all’inizio del IX secolo
d. C., passò di qui con la sua corte, nel corso di una delle
sue numerose campagne militari, ed avrebbe deciso di promuovere l’edificazione
della chiesa, cui avrebbe donato anche la ricca dote di preziosi paramenti
e di santissime reliquie. La credenza non ha probabilmente fondamento
storico, anche se la chiesa di Sant’Agnese è sicuramente
di antichissime origini.
Nella chiesetta si trovava, originariamente, un crocifisso in legno
(con il Cristo, che indossa una lunga tunica, intagliato nel legno di
olmo e la croce ricavata da legno di larice), poi
trasportato nella chiesa di S. Francesco, edificata in tempi ben più
recenti. Si tratta di una scultura di scuola tedesca, che risale al
secolo XII. Fin qui la storia. La leggenda parla di un eremita (romìt,
in dialetto), che aveva scelto i locali della chiesa di S. Agnese come
propria dimora. Qui passava le sue lunghe giornate di preghiera e digiuni.
La gente ne riconobbe ben presto la santità, e si rese conto
che le sue instancabili preghiere avrebbero ottenuto per la comunità
sondalina l’intercessione dei Santi del paradiso, la più
efficace delle difese contro i mali che sempre incombono sulla fragile
condizione umana. Per questo tutti volentieri contribuivano al sostentamento
dell’eremita, il quale, per esprimere la sua riconoscenza, cominciò
ad intagliare nel legno la figura del Cristo crocifisso.
L’eremita giunse, sereno, al termine della sua opera e dei suoi
giorni, e di lui rimasero il ricordo e quel crocifisso che, esposto
da allora nella chiesa di S. Agnese, fu la più limpida espressione
di intenso misticismo. A ricordo del suo autore, fu chiamato “al
romìt de Santa Nesgia”, cioè l’eremita di
Sant’Agnese. Ma vi fu davvero un eremita in S. Agnese, cui si
possa ricondurre questa leggenda? Pare proprio di sì: si tratta
si frate Francesco Torriani, di Mendrisio, che dimorò nella chiesa
fra il 1680 ed il 1690, come hanno appurato le ricerche di don Gianni
Sala, riportate sulla “Voce Sondalese”. Non può essere
lui, però, l’autore della scultura, che risale a diversi
secoli prima.
A
proposito di figure in odore di santità: vi è una leggenda
legata ad un’analoga figura di pellegrino, che capitò,
un giorno, in quel di Sondalo, dopo un lungo viaggio sul dorso del proprio
cavallo. Stanco ed assetato, chiese ad un contadino se potesse offrire
a lui ed al cavallo un po’ d’acqua. Questi rispose gentilmente
che avrebbe avuto l’acqua, ma avrebbe dovuto prima pazientare,
perché non c’erano fontane in paese, e bisognava procurarsela
scendendo fino alla rive del fiume Adda. Così fece, e tornò
dal pellegrino con un secchio pieno d’acqua. Questi, dissetatosi
ed abbeverato il cavallo, fu preso da pietà per la fatica cui
i sondalini dovevano assoggettarsi per procurarsi quotidianamente l’acqua.
Colpì, allora, con il suo bastone, una roccia, facendo sgorgare
da essa una fonte d’acqua purissima e fresca. L’acqua del
miracolo servì, da allora, ad alimentare le prime due fontane
di Sondalo, denominate “Bui de San Clemént” e “Bui
Redont”.
Ma le leggende sondatine non sono solamente legate ai segni prodigiosi
del bene. Come accade in tutti i luoghi, esse narrano del bene e del
male. Ecco, allora, due ultime leggende che hanno come protagonisti
animali malefici, un cavallo nero ed un cane diabolico.
La
prima racconta di un sondalino che venne bandito dalla sua comunità
per le sue azioni malvagie, e relegato in Val Fin, nella parte settentrionale
del comune di Sondalo, presso il confine con il comune di Valdisotto.
Era conosciuto come “Al Lél”, individuo spregiudicato
e senza scrupoli, e di lui, dopo il bando da Sondalo, si persero le
tracce. Comparve, però, nella valle ombrosa un misterioso cavallo,
che venne avvistato da diverse persone. Si trattava di un cavallo nero,
con gli occhi che sprizzavano fiamme, come raccontavano i testimoni,
un cavallo lanciato in una folle corsa sui ripidi versanti della valle.
I suoi zoccoli, colpendo grandi massi, li facevano rotolare sul fondovalle,
fino al letto dell’Adda, rendendo pericoloso il transito di tutti
coloro che si trovavano a passare nei paraggi.
Per porre fine al mistero alcuni audaci decisero di andare alla caccia
del misterioso animale. Lo braccarono per giorni, nel cuore della valle,
ed alla fine lo sorpresero sull’orlo di una profonda forra. Stavano
per gettarlo giù, sul fondo del vallone, quando una voce che
uscì dalla sua bocca li lasciò di sasso: il cavallo parlava,
con una voce cupa e cavernosa che metteva i brividi. Quel che disse
fu ancora più sorprendente: l’anima che lo spingeva a correre
all’impazzata, senza pace, era quella del Lél, imprigionato
per la sua malvagità nel suo corpo. Solo
cento messe dette per la salvezza della sua anima avrebbero potuto porre
fine al suo tormento.
Gli uomini si ricordarono, allora, del loro compaesano bandito molto
tempo prima da Sondalo, compresero che era diventato una di quelle anime
confinate di cui avevano sentito tante volte parlare, ridiscesero in
paese e chiesero al parroco che fossero celebrate le cento messe. Questi
accondiscese. Passarono così alcuni mesi, e giunse anche il giorno
della centesima messa. Gli uomini tornarono, allora, nel cuore della
valle. Del cavallo maledetto ed infelice non vi era più traccia.
Compresero che l’anima del Lél era stata liberata dalla
pena del confino.
Di un secondo animale maledetto parla la leggenda del “cagnöl
del Ros”, un cane pauroso che minacciava, con ringhi paurosi,
tutti coloro che passavano, a notte fatta, in località Ros, presso
il ponte sul torrente Lenisco, fra Sondalo e Mondanizza. Anche in questo
caso si trattava, con tutta probabilità, di un’anima condannata
ad espiare la sua malvagità errando senza pace nel corpo del
cane, ma nessuno seppe mai di chi si fosse trattato.
Di
tutte queste leggende possiamo leggere nel bel volume “Lingua
e cultura del comune di Sondalo”, di Silvana Foppoli Carnevali
e Dario Cossi, edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo e del
Sistema Bibliotecario intercomunale dell’Alta Valle.