SEGNI DEL BENE E DEL MALE
Lotte fra bene e male in Val Fontana (leggende)
Testi a cura di M. Dei Cas
Segni del bene e segni del male, segni della loro perenne lotta: l’universo
immaginario delle leggende ne è pieno. I massi, in special modo
quelli erratici, che sembrano precipitati, in una remota epoca di sconvolgimenti
e lotte titaniche, nei luoghi più impensati, sono la sede elettiva
di questi segni.
In Val Fontana se ne trova uno dei più famosi, il masso del diavolo,
o di S. Antonio, perché reca le impronte del maligno, che lo
voleva scaraventare verso valle, su Chiuro, e di S. Antonio, che lo
fermò con la sua mano potente e provvidente. Salendo a visitarlo,
in una lunga ma bella passeggiata che passa per Castionetto di Chiuro,
possiamo incontrare, prima della meta finale, numerosi altri segni della
lotta fra bene e male.
Punto di partenza, Chiuro, o meglio, la sua periferia orientale. Staccandoci
dalla ss. 38 al primo svincolo sulla sinistra dopo quello di S. Carlo
(per chi proceda in direzione di Tirano), raggiungiamo l’imbocco
della strada che sale verso Castionetto di Chiuro. Possiamo procede
con l’automobile, oppure, se abbiamo qualche ora a disposizione,
optare per una bella camminata che, nel periodo primaverile o autunnale,
riserverà scorci e suggestioni che ripagheranno ampiamente la
fatica affrontata.
Prima di affrontare la salita, però, concediamoci un breve fuoriprogramma
ed imbocchiamo la via delle Coldane, che si stacca dalla strada principale
sulla destra e procede verso est. Dopo un breve tratto, giungeremo all’incontro
con via Fracia, che se ne stacca sulla sinistra, e sull’angolo
dell’incrocio scorgeremo una cappelletta. Guardiamo, ora, verso
destra, ai prati che, a quota 372 circa, delimitano a sud-ovest la strada.
A poca distanza dalla cappelletta, sul limite del prato, si trova il
luogo sotto il quale è sepolto il rudere dell’antica chiesetta
di Santa Marta. E’ questa, infatti, una zona investita più
volte dalle rovinose alluvioni del torrente di Val Fontana: racconta
chi si è trovato a lavorare questi prati che una volta è
capitato che il terreno si è quasi aperto sotto i piedi di un
malcapitato contadino, che si è ritrovato in una buca, per fortuna
illeso.
La chiesetta di Santa Marta, di cui ormai non vi è più
traccia, risale almeno al XV secolo, ma cominciò ad essere minacciata
dal nuovo corso del torrente Fontana dopo l’alluvione del 1834,
per cui dovette essere abbandonata. Ciò che restava della chiesetta
crollò definitivamente il 26 gennaio 1913. Graziella Zoia, nel
numero del maggio 1950 della rivista Esperia (citato da Armida Bombardieri
in un numero nel giornalino di Chiuro) racconta una curiosa leggenda
legata alla terribile alluvione che colpì nel 1834 la zona di
Santa Marta, proprio il Sabato Santo, vigilia di Pasqua. L’alluvione
seppellì numerose abitazioni e, con esse, intere famiglie di
poveri contadini.
Diversi anni dopo un contadino, scavando il terreno per scoprire una
vena di acqua sorgiva, fece una scoperta che lo sconvolse tanto da incanutirgli,
di colpo, i capelli, che, da neri che erano, si fecero bianchi. Scavando,
infatti, aveva trovato un vetro che, rimossa la terra intorno, si era
rivelato una finestra. La finestra di un’abitazione sepolta, che
permetteva di scorgere il suo interno: si trattava di una cucina, con
il focolare nel mezzo. Avvicinandosi
al vetro, poté scorgere, e fu questo che lo sconvolse, una donna,
con un mestolo in mano, conficcato nel paiolo della polenta, ed un uomo,
con una bimba sulle ginocchia, fissato nell’atto di imboccarla.
Vicino all’uomo stavano, infine, due bambini. Tutti immobili,
come impietriti, a formare un quadretto insieme patetico e macabro.
Il contadino, riavutosi dallo choc, chiamò altra gente, perché
vedesse quell’incredibile spettacolo. Molti si affollarono intorno
alla finestra, facendo a gara per vedere, finché uno, nella concitazione,
ne ruppe involontariamente il vetro. Le figure dall’altra parte
del vetro, di colpo, si dissolsero, come polvere dispersa dal vento.
Di polvere, infatti, si trattava, polvere che aveva conservato le sembianze
dei poveri corpi sorpresi dalla furia improvvisa dell’alluvione
e fissati nell’atto della morte, polvere che si era dispersa alla
pur lieve folata d’aria che era entrata nella cucina, per la prima
volta dopo tanti decenni. Qualcuno, forse, ricordò il “memento
quia pulvis es”, ricordati che sei polvere ed in polvere ritornerai,
che riecheggia nelle meste celebrazioni del mercoledì delle ceneri,
in apertura di Quaresima.
Bene: dopo aver tributato alle vittime della violenza degli elementi
l’omaggio di un ricordo, torniamo all’imbocco della strada
per Castionetto. Nel primo tratto della salita, sulla sinistra, troviamo
già un primo segno misterioso. Si tratta della casa rossa, nei
cui pressi di trovata un sasso che recava l’impronta di una mano
aperta: l’immaginazione popolare vi aveva scorto la mano di una
strega, la “man de la stria”, e, del resto, non è
lontano da qui, ad est, il tristemente famoso Dosso Bello (Dusbèl,
Dossum Bellum), ad
est della chiesa di San Bartolomeo, luogo di elezione per i terribili
sabba delle streghe che si diceva dimorassero nella valle della Maga,
o valle della Magàda.
Proseguiamo a salire e, dopo un tornante sinistrorso, stacchiamoci dalla
strada principale imboccando una pista che, staccandosene sulla destra,
sale, con andamento piuttosto ripido, all’antica chiesa di San
Bartolomeo, a 499 metri. Un’antica leggenda narra che l’originario
progetto prevedeva che tale chiesa fosse costruita in un diverso luogo,
più in alto, ma, misteriosamente, il lavoro fatto durante il
giorno scompariva di notte, e veniva ritrovato, fatto ancor più
prodigioso, così come era stato fatto nel luogo dove poi sorse
la chiesa. Si scorse nel prodigio il chiaro segno della volontà
divina, e la chiesa fu eretta più a valle rispetto a quanto inizialmente
disposto.
La casa a fianco della chiesa fu, in origine, un monastero, poi abbandonato,
forse già nel basso Medio Evo. Anche al monastero è legata
una curiosa storiella, peraltro priva di fondamento storico: dicono
che, nel Cinquecento, vi fossero ospitati gli Umiliati e che questi
avrebbero cacciato a sassate nientemeno che l’illustre San Carlo
Borromeo, in visita a Castione di Chiuro, considerato nemico del loro
ordine.
Proseguiamo, quindi, sulla strada che sale verso Castionetto, l’antica
Castione di Sopra (chiamata così per distinguerla da Castione
di Sotto, l’attuale Castione), fino a raggiungere la strada provinciale
panoramica dei Castelli, che prosegue, a destra, verso Teglio. Attraversata
la strada, siamo nel cuore del paese (m. 572). Risaliamolo,
seguendo le stradine che passano fra le case, in direzione della sua
parte alta, la contrada Maffìna (m. 660), un po’ isolata
rispetto al suo corpo principale. Per raggiungerla, dobbiamo percorrere
un tratto della strada che da Castionetto sale verso Dalico.
Poco prima del nucleo di case della frazione, si trova, sulla destra,
una casa isolata e cadente, la Ca’ Musìn, che reca sulla
facciata il dipinto di una Madonna. A tale dipinto è legata una
curiosa leggenda, riportata nella raccolta del 1976 “Storie e
leggende dei nostri paesi”, della classe IV B della scuola elementare
di Chiuro, guidata dall’insegnante Armida Bombardieri. La Madonna
dipinta porta, sulla spalla, una grossa pietra, che orna la spilla che
ne ferma il vestito. Tale pietra balzava all’occhio di tutti quelli
che, passando di lì, si fermavano ad osservare il dipinto.
Una volta un uomo non seppe resistere alla curiosità, che pure
si vuole donna, e, approfittando dell’abbandono della casa, salì
sulla scala che portava al primo piano e si avvicinò al dipinto,
per vedere se la pietra preziosa fosse vera. Per essere sicuro che si
trattasse solo di un particolare dipinto, allungò la mano fino
a toccarla, e subito cadde all’indietro a corpo morto: era stato
folgorato all’istante, forse punito per il gesto sacrilego, forse
colpito da qualche forza arcana. Da allora nessuno osò più
neppure avvicinarsi alla casa solitaria, che assunse la sinistra fama
di casa maledetta. Noi possiamo, però, avvicinarci senza eccessivi
timori: l’unico problema è che nel dipinto, deteriorato
dal tempo, il dettaglio della pietra non si distingue più.
Continuiamo il cammino, attraversando l’antica contrada Maffina, dove si respira
ancora un profumo d’antico; seguendo la strada per Dalico, troviamo
ben presto, sulla nostra sinistra, dopo un tornante sinistrorso, la
torre di Castionetto (m. 689), riaperta nel maggio del 2003, dopo un
restauro. Si tratta delle più imponenti torri di Valtellina,
con la sua base di undici metri per lato: non sappiamo, però,
chi la costruì, né quando. Quel che è certo è
che fu ristrutturata da Stefano Quadrio, sul finire del Trecento.
Ma a noi importa più la leggenda della storia: nella torre, sembra,
prese, una volta, dimora un diavolo, dalle dimensioni impressionanti.
Ma, a dispetto della mole, si trattava di un diavolo pavido, che temeva
gli esseri umani ed evitava, quindi, di farsi vedere. Nondimeno la voce
della sua presenza si sparse ed alcuni abitanti di Castione decisero
di salire alla torre per farlo sloggiare. Quanto vi entrarono, lo videro
che tentava di nascondersi al loro sguardo. Vistosi scoperto, il povero
diavolo fuggì fuori, con tale concitazione da sbattere il naso
contro uno spigolo della torre, provocando uno squarcio che era ancora
ben visibile prima del recentissimo restauro. Ma, fuori, si trovò
accerchiato, ed allora tornò dentro, inseguito da una fitta sassaiola.
Gli uomini, infatti, speravano di seppellirlo sotto una gragnola di
sassi, ma il diavolo si salvò perché riuscì a scavare
una galleria che sbucava più a valle. Sfruttandola, riuscì
a fuggire, e di lui non si seppe più nulla.
Il nostro cammino in direzione della Val Fontana prosegue per un breve
tratto sulla strada Castionetto-Dalico: poco oltre il tornante destrorso
che si trova subito dopo la torre, lasciamo
per un attimo la strada, imboccando l’antica mulattiera per la
val Fontana, che se ne stacca sulla sinistra. Salendo per un bel tratto,
lastricato in grisc, troviamo, sulla destra, in località Dossello,
il rudere di una baita, sulla cui facciata è ancora visibile
un dipinto, datato 1819. Si tratta di un ex-voto, legato ad un miracolo
che accadde proprio in quell’anno.
Così lo racconta la signora Elsa Chiesa, classe 1932: dalla mulattiera
della Val Fontana scendevano due fratelli con la moglie di uno di loro,
che aspettava un bambino. La moglie guidava un bue, che, a sua volta,
trascinava la priàla, una specie di carretto su cui era caricata
della legna. Poco prima della casa dei fratelli, il bue, improvvisamente,
forse spaventato da qualcosa che aveva visto, si imbizzarrì,
rovesciando la priala e rovinando a terra a sua volta. Sotto il bue
rimase la povera donna, che fu data per morta dai due fratelli, disperati
per quanto era accaduto.
Invece, quando il bue si risollevò, la donna ne uscì miracolosamente
illesa: non solo, ma neppure il bambino ebbe alcun danno dal terribile
incidente occorso. Il miracolo determinò la conversione di uno
dei due fratelli, che era ateo: insieme, decisero di ringraziare il
cielo con il dipinto che si può ancora osservare. Un segno del
bene, dunque, l’ultimo, prima del segno più grande, il
masso del diavolo o di S. Antonio, che si trova poco sotto il ponte
di Premelè, in Val Fontana. All’antica mulattiera per la
Val Fontana si è oggi, in buona parte, sovrapposta una pista,
che possiamo comodamente seguire per addentrarci sul fianco orientale
della valle, alla volta del ponte.
Per imboccare la pista, però, dobbiamo tornare sulla strada per
Dalico e risalirla per un tratto: dopo due brevi tornantini, sinistrorso e
destrorso, incontriamo un nuovo tornante sinistrorso, che precede un
tratto più lungo di strada; al successivo tornante destrorso,
ecco la pista, che si stacca, sulla sinistra, dalla strada, sale per
un tratto, per poi scendere gradualmente, passando a monte delle baite
Gavinelli (m. 804). Poi al fondo sterrato si sostituisce quello in cemento
e, poco a monte del torrente, la pista riprende a salire, passando a
valle dei prati delle baite Carbonare (m. 901).
Raggiungiamo, così, un ponticello sul torrente di Val Fontana:
a questo ponte scende, dalla nostra sinistra, una pista che si stacca
dalla strada principale della Val Fontana (che corre sul lato opposto
della valle – occidentale – rispetto quello che stiamo percorrendo).
Noi, senza dirigerci al ponte, proseguiamo sulla pista, fino a giungere
in vista del ponte coperto di Premelè (m. 1046). Poco sotto il
ponte, sul letto del torrente, alla nostra sinistra, dovrebbe trovarsi
il masso del diavolo. Se chiediamo a Castionetto del masso, ci potremo
sentir rispondere: è vicino al letto del fiume, sotto il ponte,
ma chissà poi se c’è ancora, dopo la tremenda alluvione
del 1987.
Sì, il masso c’è ancora: è riconoscibile
non solo per le sue dimensioni, che superano quelle dei massi vicini,
ma anche per l’impronta della mano del santo, sulla sua sommità.
Lo troviamo appena sopra la prima griglia in cemento che si trova a
valle del ponte, circa duecentocinquanta metri sotto. Per vedere l’impronta
della mano, però, dobbiamo salire, con tutta la dovuta cautela,
sulla griglia: da qui la distinguiamo nettamente. E’
un’impressione davvero emozionante, richiama alla memoria quell’indicibile
sensazione rassicurante e rasserenante che qualche volta ci sarà
capitato di vivere, da bambini o da ragazzi, quando una mano di padre
si è posata sulla nostra spalla o sulla nostra testa. Una mano
che dice protezione e benedizione.
Ma ecco la leggenda, così come si trova nella già citata
raccolta curata da Armida Bombardieri. Il diavolo, infuriato contro
gli abitanti di Castionetto perché erano eccessivamente devoti
e rispettosi della Legge divina, volle, una volta, distruggere il paese
scaraventadogli addosso un grande masso da Dalico. Il masso, però,
non scese diritto, ma deviò verso la val Fontana, e si fermò
sul fondo valle, in località Dusi. Qui si catapultò il
diavolo, per riprenderselo e tornare a scagliarlo su Castione. Ma, prima
che potesse mettere in atto il suo proposito malvagio, piombò
sul posto S. Antonio, dalla chiesetta che, più a monte, è
appunto dedicata a lui. Proprio mentre il diavolo stava per riprendersi
il masso, il santo vi si sdraiò sopra, e fermò il masso
con la sua mano. Il diavolo, allora, dovette darsi per vinto ed abbandonare
i suoi propositi di distruzione. Castionetto fu salva, e poté
continuare nella sua santa devozione.
Questa salita verso l’arcano e la leggenda non può, quindi,
che concludersi con una visita riconoscente alla chiesetta di S. Antonio,
nella località omonima: la si raggiunge facilmente, proseguendo
sulla strada principale della valle, che, proprio in corrispondenza
del ponte di Premelè, passa sul suo lato orientale. Una
salita da Chiuro a S. Antonio comporta un dislivello di circa 900 metri,
superabile in due ore e mezza di cammino. Se, però, partiamo
dalla strada per Dalico (la pista non è percorribile con autoveicoli),
il tempo si riduce ad un’ora circa.