STORIE DI VOLPI
L'animale inafferrabile per eccellenza (leggenda dei boschi sopra Tresivio e Colorina)
Testi a cura di M. Dei Cas
La
volpe, o “golp”, come si dice nei dialetti di Valtellina,
l’animale furbo ed inafferrabile per eccellenza, non poteva non
ispirare credenze e leggende. Sentite queste due, che la presentano
sotto una luce enigmatica ed inquietante.
Non so se vi è mai capitato di fermarvi ad osservare il versante
montuoso sopra Colorina, nelle Orobie centrali. Colorina, per chi non
lo sapesse, è il paese che si trova a ridosso del versante orobico
della media Valtellina, immediatamente ad ovest di Fusine (sul lato
opposto rispetto al torrente Madrasco) e di fronte a Berbenno di Valtellina.
Il versante montuoso, dicevo: sale, restringendosi, come un grande cono,
rivestito, nella parte superiore, di un fitto e bellissimo bosco di
abeti, il bosco Nono. Un bosco che sembra fatto apposta per la caccia.
Oggi la caccia qui è vietata, ma un tempo non era così,
ed i sentieri che si intrecciano, dipanano e perdono fra gli abeti,
splendidi ed alteri, erano spesso calcati da cacciatori solitari e taciturni,
tutti presi nelle loro storie, nei loro silenzi, nei pensieri il cui
filo attendeva solo di essere spezzato dalla comparsa improvvisa della
preda, che era come un sollievo, una liberazione. Uno
di costoro si alzò, un giorno, di buon mattino, uscì dalla
sua casa di Colorina, senza quasi far rumore, e si incamminò
verso il monte. Era alla Madonnina, appena sopra il paese, quando le
prime luci dell’alba sembravano invitare tutte le cose a ricomporsi
dopo l’abbraccio complice delle tenebre.
Continuò a salire per l’antica mulattiera che passava per
i maggenghi di Gavazzi e Cantone, prima di raggiungere la località
di Cornello, che oggi è raggiunta da una carrozzabile che termina
poco sopra, ad una quota approssimativa di 1050 metri. Non si fermò
a Cantone, ma proseguì, di buona lena, sul sentiero che sale
alle baite di Arale (m. 1382), e che ancora oggi si può facilmente
trovare, poco prima del termine della carrozzabile, e percorrere: una
lunga diagonale verso sinistra, poi una svolta a destra, prima di uscire
dal bosco sul limite inferiore dei prati di Arale. Era giorno fatto
quando, dopo poco più di due ore di cammino, toccò i prati.
Si fermò e guardò, guardò il superbo scenario di
cime che da sempre stava lì, a nord, dai pizzi Badile e Cengalo
ai Corni Bruciati ed al monte Disgrazia,
e, più a destra, lasciò riposare lo sguardo sull’ampio
spaccato della media Valtellina chiuso, sull’orizzonte, dal gruppo
dell’Adamello. Pensò a quanto corresse veloce, la sua vita,
a confronto di quella quiete perenne nella quale sembravano da sempre
immersi quegli scenari. Pensò che erano già lì
prima che occhio potesse vederli, e che sarebbero rimasti dopo che l’ultimo
occhio di vivente si sarebbe chiuso. Pensò, ed anche il pensiero
corse veloce. Quando lo lasciò si era già rialzato per
riprendere il cammino.
Un sentiero, meno marcato, prende a salire leggermente partendo dal
limite alto di destra dei prati, piegando poi a sinistra e diventando
gradualmente più ripido. Gli alti abeti, diritti ed orgogliosi
nella loro bellezza, sembravano non accorgersi neppure di quanto accadeva
nell’ombra nella quale qualche squarcio di luce si faceva strada,
a fatica, di tanto in tanto. Il proposito del cacciatore era di raggiungere
la baita del Pizzo, più in alto (m. 1845), e lì pernottare
per poi vagare senza meta precisa, l’indomani, nei boschi più
alti. Ad una delle tante svolte del sentiero, il passò si arrestò
prima che potesse focalizzare il perché: si fece immobile, e
solo allora l’occhio vide.
Vide la volpe. Una splendida volpe dal pelo rossastro. Mai vista una
volpe di aspetto così elegante. Sembrava intenta a frugare nell’incavo
di un vecchio tronco marcio. Non si era accorta di lui. Tolse, con movimenti
lenti e silenziosi, il fucile dalla tracolla. L’aveva
già imbracciato, quando i suoi occhi incrociarono i piccoli occhi
della volpe, che aveva tolto il muso dall’incavo. Un attimo. Pensò
che sarebbe fuggita via prima che potesse prendere la mira. Esitò,
stava per abbassare il fucile. Ma la volpe non si mosse. Lo guardava.
Non sembrava impaurita. Aveva uno sguardo indefinibile. Se fosse stata
un essere umano, sarebbe parso perfino uno sguardo malinconico.
Mirò e sparò. Non mancò il colpo. La volpe cadde,
fulminata, presso il vecchio tronco marcio. Un’ottima preda. Imbalsamata,
avrebbe fatto la sua bella figura nella sua cucina. Mosse qualche passo
per avvicinarsi all’animale morto, ma prima che potesse toccarlo
udì una risata. Una risata argentina, come di bambino che accoglie
il padre al ritorno a casa con un dono inatteso. Si volse intorno, più
volte, perlustrò il bosco con lo sguardo: non c’era nessuno.
“Sono stanco,” pensò, “sento voci che non ci
sono, meglio che torni oggi stesso a casa, questa bella volpe mi ripagherà
della fatica di queste ore di cammino”. E così fece. Ai
rintocchi dell’Angelus di mezzogiorno era di ritorno a casa. Passò
così quella giornata, e ne passarono molte altre.
Passarono mesi, addirittura, prima che accadesse un fatto che lo costrinse
a ripensare a quella misteriosa risata, che aveva attribuito alla sua
stanchezza. Un giorno se ne andava per le vie di Morbegno, dopo aver
fatto qualche acquisto al mercato di piazza S. Antonio. “Ehi,
voi, cacciatore, ehi, voi”: una voce lo raggiunse dalle spalle.
Si volse, guardò in alto, vide una distinta signora, dai bellissimi
capelli rossicci, che gli faceva ampi segni da un balcone. “Ehi,
voi, sì, voi, venite, salite, per cortesia, ho da dirvi una cosa
di grande importanza”. Esitò, perché non conosceva
quella donna, ma l’invito si fece più insistente, ed alla
fine l’uomo, anche per la curiosità, si indusse a salire:
come poteva sapere, quella donna, che era un cacciatore?
La donna lo accolse, gentile, sulla soglia di casa, lo introdusse in
un elegante appartamento, lo fece accomodare. “Vi debbo molto,
voi non lo potete sapere, ma vi debbo molto”, disse, con un tono
di tale serietà che al cacciatore non venne neppure in mente
che si trattasse di una burla. “Cosa mi dovete, signora? Neppure
vi conosco. Chi siete, voi?” “Chi sono? Chi sono stata,
piuttosto, vi dovrei dire. Un
tempo la malvagità mi prese, mi votai al male. Fui punita per
i miei malefici, trasformata in animale e condannata a vagare senza
sosta e senza pace per boschi e selve, finché qualcuno mi avesse
liberato da questa pena. Voi, uccidendomi, mi avete liberato.”
Il cacciatore ancora non comprendeva. “Io ero quella volpe che
vi guardò, un giorno non lontano, sperando che mi liberaste.
Quella volpe ero io.” Capì, allora, vide: vide nei capelli
della donna il pelo quella volpe. Lasciò, allora, senza una parola
la sua casa. Aveva, ora, nuovi pensieri da portare con sé nelle
lunghe e solitarie giornata di caccia.
Dopo una storia a lieto fine, eccone una meno rassicurante. Portiamoci
sul versante retico, nei boschi presso Tresivio, ad est di Sondrio.
Un uomo andò un giorno in una selva, appena fuori del paese.
Non per cacciare, ma per fare un po’ di legna. Raccolse qualche
fascina, al bordo del sentiero, e si stava disponendo a trascinarla
fino a casa, quando vide una volpe. Una volpe che lo guardava con due
occhi di brace.
“Via, bestiaccia”, gridò, scagliandole contro un
bastone. Ma quella non si mosse. Quegli occhiacci gli mettevano i brividi,
e decise di riprendere la strada di casa lasciando la legna. La volpe,
però, prese a seguirlo. Ogni
tanto si voltava, e la bestia era sempre là, ad una certa distanza,
ma sempre là, e non gli toglieva gli occhi di dosso. Solo quando
fu fuori dal bosco, la perse di vista. Era tutto sudato per la paura.
Corse a casa per riprendere coraggio, ma non si sentiva affatto bene.
Aveva le gambe molli, le ossa rotte, come se lo avessero bastonato.
Si mise a letto, sperando che la notte gli restituisse le forze. Ma
il giorno dopo stava ancora peggio. E così il giorno dopo ancora.
Non si alzò più. Dopo alcuni giorni, morì. In paese
si parlò a lungo della volpe diabolica, se ne dissero molte,
ma nessuno seppe mai con sicurezza chi fosse veramente quell’animale
malefico.