L'ULTIMA STREGA
La mesta fine dell'ultima strega di Valtellina
Testi a cura di M. Dei Cas
Il Seicento fu, in Valtellina e Valchiavenna, il secolo più
nero: infierirono sulle popolazioni valligiane crudeltà e devastazioni
causate dagli eserciti contrapposti nella guerra dei Trent’anni,
e poi, dal 1629, la peste, altro terribile portato di questa infausta
guerra, ed infine le conseguenti carestie, che determinarono un vasto
movimento emigratorio.
Paura e frustrazione favorirono una forte recrudescenza di quella caccia
alle streghe che già era iniziata, in forme più blande,
nei secoli precedenti. Quando il male attanaglia una popolazione, cresce
l’esigenza di trovare dei colpevoli, di dare un volto a questo
male, un volto invisibile ed uno visibile. Il volto invisibile è
presto trovato: le potenze del male, i demòni, il diavolo. Quello
visibile è meno ovvio, meno scontato, ed assunse i tratti di
qualche sguardo un po’ sbieco, un po’ troppo spiritato,
di qualche figura di donna scarmigliata, eccentrica, singolare, delirante
(nel senso etimologico di “fuori dal solco”, “fuori
dalle righe”). La strega, appunto, spesso povera mentecatta che
confessava anche spontaneamente convegni con il diavolo, malefici, fatture,
infanticidi, diffusione di malattie che colpivano raccolti, bestie ed
anche uomini, insomma opere diaboliche frutto della sua patologica fantasia.
Poi,
nel Settecento, il fenomeno dei processi (e delle orribili torture connesse:
a quei tempi si considerava credibile una confessione estorta fra gli
spasimi del dolore) e delle condanne a morte si diradò. Ma dove
visse, dove e come morì l’ultima strega di Valtellina?
Stando a quanto racconta una leggenda, la storia delle streghe di Valtellina
non si concluse con i bagliori di un ultimo sinistro rogo, ma in maniera
meno eclatante e più malinconica. L’ultima strega non fu
bruciata, ma bandita, indotta a lasciare il consorzio degli uomini,
a raggiungere gli esseri malefici simili a lei, che, si credeva, popolavano
i boschi, assumendo le forme di lupi, capre demoniache (la “cavra
bèsüla”), volpi, gatti selvatici, perfino orsi.
Tutto ciò accadde in quel di Ardenno,
il primo paese, ad est, del Terziere della bassa Valtellina (oggi mandamento
di Morbegno), il cui nome, forse, deriva dal verbo “ardere”.
Curioso: un paese che conserva, nel nome, l’immagine di un fuoco
che arde fu la cornice della sorte dell’ultima strega di Valtellina,
che però non fu arsa, non fu uccisa dal calore che consuma, ma
condannata a morire nei boschi, a soccombere ad terribile gelo invernale,
che non risparmia chi non abbia un ricovero caldo.
Ecco
come andarono le cose. Siamo a Piazzalunga,
piccola frazione a monte di Ardenno, denominata così per il bel
corridoio di prati sul quale è collocata, in una posizione climaticamente
e panoramicamente assai felice (di qui si domina, con lo sguardo, la
sezione occidentale della media Valtellina). Il periodo in cui accaddero
i fatti è indeterminato, ma possiamo supporre che fosse il Settecento
inoltrato.
A Piazzalunga viveva una donna singolare, che, fin da giovane, aveva
mostrato tante stranezze, nel carattere e nel comportamento, da non
aver trovato nessuno che la prendesse come moglie. Forse non aveva mai
neppure cercato un marito, e sicuramente non aveva mai mostrato quella
cura di sé che è tratto comune di tutte le donne, anche
di più umile condizione. Non aveva famiglia, viveva sola. Appariva
trasandata, scarmigliata, e, con il passare degli anni, il suo aspetto
si era fatto più sinistro, il corpo più ossuto e curvo,
il volto più smunto, lo sguardo più perso in chissà
quali visioni. Viveva di espedienti: passava intere giornate a raccogliere
erbe nei boschi, coltivava un piccolo orto, accoglieva i piccoli che,
senza troppo dare nell’occhio, qualche mano generosa le offriva.
Scendeva, spesso, ad Ardenno, lungo la bella mulattiera che da Piazzalunga
conduce al poggio di San Lucio, e qui raggranellava anche qualche soldo
vendendo pozioni ed erbe che, a suo dire, avevano effetti prodigiosi,
suscitavano
amori, attizzavano passioni, rinvigorivano le membra stanche. Leggeva
anche la mano, indovinava il futuro, prediceva eventi belli ed eventi
brutti.
Suscitava, a Piazzalunga ed Ardenno, reazioni contrastanti: molti la
temevano, alcuni credevano nelle sue capacità magiche e speravano
di trarne vantaggio, molti, però, anche, si prendevano gioco
di lei, approfittando della sua solitudine e di quella parvenza tutto
sommato inoffensiva ed inerme: veniva, talvolta, dileggiata, insolentita,
qualche ragazzo le scagliava contro un sasso, un piccolo bastone, un
osso. Lei si limitata a farsi schermo con le mani ed a borbottare qualcosa,
forse in una lingua sconosciuta, che sembrava un po’ lamento,
un po’ maledizione.
Insomma, si meritò l’appellativo di “strìa”,
strega, in un periodo nel quale di streghe si parlavano sempre meno,
e con sempre minore paura: bambini e ragazzi, quando la vedevano scendere
con quello sguardo un po’ sbieco e quel buffo canestro pieno di
erbe, gridavano, ridendo e fingendo una paura tutta simulata: “Vìtela,
la strìa, vìtela, la stria”, cioè “Guardala,
la strega, guardala, la strega!”, o anche: “strìa,
strìa, striùna, ciàpum, se te se buna”, cioè
“Strega, strega, stregona, prendimi, se sei capace”. Fu
lei ad avere paura di quel marchio, si isolò sempre di più,
non mise più piede in chiesa, in tempi nei quali un comportamento
del genere significava porsi al di fuori della comunità. Il parroco,
che non credeva veramente nelle sue capacità malefiche, ma voleva
stroncare quel segreto ricorrere di alcuni suoi parrocchiani alle arti
della superstizione, condannate dalla Chiesa (era un peccato assai grave,
un peccato mortale), decise
di approfittarne per farla finita con la strega di Piazzalunga, e la
scomunicò solennemente. La scomunica rappresentava non solo l’allontanamento
dalla comunità della Chiesa, ma anche quello dalla comunità
civile. Fu così che la “strìa” lasciò
Piazzalunga, ritirandosi nei bei boschi di castagni a monte del paese.
Non si fece più vedere, non se ne seppe più nulla. Di
lei rimase solo la memoria nei moniti che mamme e nonne, per assicurarsi
il pronto ritorno di figli e nipoti sul far della sera, rivolgevano
loro: “Sta atenta che quant che ‘l suna l’Ave Maria,
saltà fö la strìa”, cioè “Stai
attento che quando suona l’Ave Maria – cioè dopo
le sei di sera – viene fuori la strega”, e la strega per
antonomasia era sempre lei, la strega di Piazzalunga. Venne, infine,
trovata, qualche anno dopo, morta, probabilmente stroncata dai rigori
di un inverno, nel cuore di un bosco. Di lei non si sa neppure dove
fu sepolta. Rimase solo l'eco, nel lamento del vento d'inverno, fra
le fronde spoglie. Era l’ultima strega di Valtellina: terminò
con lei, senza bagliori, senza clamori, la storia delle streghe della
valle.
Ma non terminò la storia delle donne strane, bizzarre, selvatiche.
In quel di Ardenno molti anziani conoscono, magari con diverse varianti,
la storia della “màta selvàdega”, o “màta
salvàdega”, cioè della matta selvatica, donna terribile
che viveva sola, spauracchio dei bambini disobbedienti, che, a detta
delle nonne, amava rapire e bollire in un gran calderone. Nella frazione
Masino assicurano che la sua dimora era un enorme masso nel mezzo del
torrente omonimo, che scende dalla Val Màsino.
Sempre
a Masino viveva un tale che passò la sua infanzia nel terrore
per questa donna terribile: quante volte, dopo aver combinato qualche
marachella, era stato preso dalla paura che la màta salvadega
venisse, nel cuore della notte, e se lo portasse via! Poi, man mano
che la sua età e la sua forza crescevano, la paura diminuì,
ma gli rimase dentro un senso di risentimento e di fastidio per questa
figura che aveva tormentato come un’ombra minacciosa la sua infanzia.
Decise, allora, di toglierla di mezzo. Si caricò sulle spalle
una brenta di vino e si avviò verso il grande masso che la temibile
donna aveva scelto come dimora.
Quando la vide, ne ebbe più ribrezzo che paura, ma lo vinse e,
fingendo grande affabilità, le chiese se volesse bere. Questa,
dopo averlo guardato con quegli occhietti spiritati dai quali traspariva
tutta la sua follia, per tutta risposta si mise a sghignazzare, e spiccò
un balzo prodigioso. Per un attimo il nostro temette di vedersela piombare
addosso, ma la matta si infilò proprio dentro la brenta (non
era un donnone!) e cominciò avidamente a bersi quel buon vino.
L’uomo, allora, colse al volo l’occasione e spinse la brenta
nel torrente. Sparirono, così, nei gorghi impetuosi del torrente
Masino, brenta vino e vecchia. Rimasero, all’anonimo audace, l’orgoglio
per aver fatto giustizia, ma anche il rimpianto per il vino perso e
la brenta sprecata.